13 dicembre 2016 15:25

A una festa di gente agiata e colta, può accadere che partecipino persone di varia provenienza geografica, di diverso colore della pelle, di profilo professionale quasi sempre prestigioso. Di loro parliamo tra noi in svariati modi. Diciamo: la professoressa nera con l’abito giallo. Diciamo: dobbiamo assolutamente invitare di nuovo l’avvocato americano. Diciamo: hai visto com’era divertente coso lì, Maduagwi, lo scrittore? Di sicuro non ci viene in mente di borbottare frasi tipo: certo ieri sera non sono riuscito ad assaggiare niente, si sono mangiati tutto gli stranieri; e nemmeno: hai notato che a casa di Tizio c’erano più stranieri che italiani? Se proprio “straniero” ci scappa, be’, usiamo la parola come se si parlasse dello Straniero di Elea, personaggio di un paio di dialoghi di Platone: ad avercelo, uno come quello, a cena.

Questo per dire che persone di censo discreto e buona cultura è sempre più raro che siano ai nostri occhi “stranieri”, anche se vengono da altre regioni del pianeta. Le consideriamo di tutto rispetto. Le definiamo di cultura cosmopolita. Le vediamo come anticipatrici di un raffinato nomadismo. “Stranieri”, ormai, lo riserviamo soltanto ai poveri che, anche se hanno viaggiato parecchio, anche se parlano parecchie lingue, anche se hanno imparato molto e molto potrebbero raccontare, non ci paiono cosmopoliti e alle feste non li invitiamo.

Questa rubrica è stata pubblicata l’8 dicembre 2016 a pagina 16 di Internazionale. Compra questo numero| Abbonati

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