07 febbraio 2017 15:44

Muri. Uno dice: “Chi si ricorda di come s’indignava il mondo libero, Stati Uniti in testa, per il muro di Berlino? E dell’esultanza per il suo crollo ci siamo dimenticati?”. Un altro ribatte: “Che c’entra ora il muro di Berlino? Lì si voleva tenere la gente dentro, Trump invece la vuole tenere fuori”. Discutono. Si capisce presto che la simbologia ricorrente è quella del dentro e del fuori. A Tizio piacciono il muro e le barriere di Trump. Caio s’indigna, ma ammette che qualche muretto nostrano gli sembra ormai necessario. Il primo esulta per quell’ammissione, il secondo prova a dimostrare che c’è un tener fuori perbene e un tener fuori triviale, un chiudersi dentro oculato e uno infame.

L’intera storia dell’homo sapiens è velocemente ridotta, per bocca di entrambi, a un rissoso “o dentro o fuori”. Salvo poi scoprire che non è così facile: il fuori è parte di qualche dentro e il dentro di qualche fuori. Tizio e Caio allora s’impantanano. Ma nessuno dei due, disgraziatamente, sa ricorrere a simboli non fondati sul dentro e sul fuori. Anche se sono, quei simboli, gli unici che potrebbero tagliare la miccia della polveriera su cui siamo seduti. La spilla da balia, per esempio, approdata sul petto delle donne americane che rifiutano la xenofobia e il razzismo di Trump. Un’icona da mettere dappertutto, anche negli uffici postali che sbattono fuori le donne, se allattano.

Questa rubrica è stata pubblicata il 3 febbraio 2017 a pagina 10 di Internazionale. Compra questo numero| Abbonati

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