02 gennaio 2016 10:32

Il giorno di Natale ad Ajaccio, in Corsica, una sala da preghiera musulmana è stata saccheggiata al grido di “Arabi fora”, “Padroni a casa nostra” e “Bisogna ammazzarli”. L’islamofobia, rinfocolata da discorsi politici e mediatici che le danno diritto di cittadinanza, passa dalle parole agli atti, aprendo la via a tutti gli odi dell’altro, chiunque esso sia.

“È la prima volta che l’altro diventa un problema interno della cultura europea, un problema etico di tutti noi”. Questa frase l’ha detta un giornalista europeo, e non uno qualunque, ma un gigante del reportage che ha percorso tutto il mondo durante la sua vita, trascorsa alla generosa scoperta degli altri: altri uomini, altri popoli, altre culture, soprattutto in Africa. Un cittadino polacco, nato nel 1932, che non aveva dimenticato come la sua terra fosse stata scelta a suo tempo dai nazisti per impiantarci i campi di sterminio, e fosse stata segnata per sempre dall’assassinio di uomini, donne e bambini perché avevano il torto di essere nati altri, cioè ebrei, zingari…

Il libro da cui è tratta questa frase s’intitola L’altro (Feltrinelli 2015) ed è una specie di testamento, di lascito alle generazioni future. Ryszard Kapuściński l’ha pubblicato nell’anno precedente alla sua morte, avvenuta a Varsavia nel 2007. In questa raccolta di conferenze, Kapuściński trasforma la sua esperienza professionale in riflessione politica. Il sentiero sempre incerto del grande reportage, in cui “ogni incontro con l’altro è dunque un indovinello, qualcosa di ignoto se non addirittura di segreto”, gli ha insegnato soprattutto che “siamo noi i responsabili della strada che percorriamo”.

In altre parole, che questo altro, l’incontro con il quale ci sorprende, ci disturba o ci disorienta, in fin dei conti dipende da noi. Dal nostro modo di accostarci a lui, dal nostro sguardo, dalla nostra curiosità. Dalla nostra “benevolenza nei suoi confronti”, sintetizza Kapuściński. Dal nostro rifiuto di cedere “a questa indifferenza verso l’altro, che causa un’atmosfera capace di sfociare nel fenomeno Auschwitz”.

Fermati. Accanto a te c’è un altro uomo. Incontralo: l’incontro è la più grande delle esperienze

“Fermati”, ingiunge Kapuściński al suo lettore facendo eco al pensiero del filosofo Emmanuel Lévinas. “Accanto a te c’è un altro uomo. Incontralo: l’incontro è la più grande, la più importante delle esperienze. Guarda il volto che l’altro ti offre. Attraverso di esso non solo ti trasmette se stesso, ma ti avvicina a Dio”. La freddezza, l’insensibilità, l’ignoranza che conducono a trascurare l’altro sono passi che ci allontanano dal bene, mentre la scoperta della sua differenza, quell’alterità che è “una ricchezza, un bene e un valore”, ci avvicina a esso.

Ma questo passo non viene facilmente, presuppone uno sforzo, richiede “dedizione ed eroismo”, giunge a scrivere Kapuściński. Perché dobbiamo pensare contro noi stessi, contro le nostre abitudini, contro questi cinque secoli in cui l’Europa ha dominato il mondo sul piano politico, economico, culturale, intrecciando rapporti con l’altro profondamente asimmetrici, dominatori, paternalistici. Noi viviamo questo rinvio al mittente in cui l’altro s’invita definitivamente al banchetto del mondo, proprio adesso che il nostro continente, l’Europa, non può più pretendere di “sedercisi nella sua solita veste di esclusività, immunità e autocrazia”.

Questa è la grande sfida che ci attende, cui siamo chiamati e in cui saremo giudicati a seconda che tratteremo l’altro da fratello o da estraneo. Quest’altro che nelle nostre società ha assunto le sembianze del musulmano. Quest’altro dalla cui sorte dipende il nostro rapporto con il mondo. Il nostro avversario non è altri che la paura, ed è per questo che bisogna contrapporgli il coraggio, un coraggio il cui esempio restituisce fiducia: coraggio dei princìpi, coraggio dell’audacia, coraggio delle resistenze, coraggio delle vette, coraggio delle solidarietà.

Ieri come oggi, all’origine delle xenofobie e dei razzismi c’è sempre la paura del mondo. Incapaci di raccoglierne le sfide, di capirle e di padroneggiarle, i governi che fanno commercio di questi odi cercano di sopravvivere designando dei capri espiatori per far sì che si sprigioni e si esaurisca la paura che li abita e che li paralizza.

“È un uomo che ha paura”, scriveva già nel 1946 Jean-Paul Sartre a proposito dell’antisemita nel suo L’antisemitismo. Riflessioni sulla questione ebraica (SE 2015). Ma questo ritratto vale anche per l’islamofobo, il negrofobo o lo zingarofobo di oggi:

È un uomo che ha paura. Non degli ebrei, certo: di se stesso, della sua coscienza, della sua libertà, dei suoi istinti, delle sue responsabilità, della solitudine, del cambiamento, della società e del mondo; di tutto meno che degli ebrei. L’ebreo è solo un pretesto; in altri luoghi ci si servirà del nero, o del giallo. La sua esistenza permette semplicemente all’antisemita di soffocare sul nascere le sue angosce persuadendosi che il suo posto è stato segnato nel mondo, che è suo, che egli ha per tradizione il diritto di occuparlo. L’antisemitismo, in una parola, è la paura di fronte alla condizione umana.

Le riflessioni di Sartre avevano già individuato quello che è sempre il nodo dell’impasse francese, e che è ora di sciogliere: il rifiuto di ammettere l’altro come tale, il desiderio di renderlo simile a sé, questo universale astratto che ammette l’ebreo, il nero, l’arabo solo a condizione che si spogli della sua storia e della sua memoria. Sartre derideva così il falso amico degli ebrei, il “democratico” che all’ebreo rimprovererebbe “volentieri di considerarsi ebreo”, mentre l’antisemita gli rimprovera più radicalmente “di essere ebreo”. Costui, aggiungeva Sartre, “non conosce l’ebreo, né l’arabo, né il nero, né il borghese, né l’operaio: conosce solamente l’uomo, in tutti i tempi e in tutti i luoghi uguale a se stesso”, ed è così che “non esiste il caso singolo: l’individuo non è per lui se non una somma di caratteri universali. Ne consegue che la sua difesa dell’ebreo lo salva in quanto uomo e lo annienta come ebreo”.

È esattamente ciò che vivono da tanto tempo i nostri connazionali musulmani, inchiodati alla loro origine mentre in un’unica mossa si impedisce loro di rivendicarla. Etnicizzati e stigmatizzati allo stesso tempo. Ridotti a un’identità univoca, in cui dovrebbero cancellarsi la loro diversità e la pluralità delle loro appartenenze, ma respinti nel momento in cui vogliono farla propria rivendicandosi come tali.

Parigi, il 14 gennaio 2015. (Capucine Granier-Deferre, The New York Times/Contrasto)

Eccoci al cuore di una sfida francese da troppo tempo irrisolta: imparare finalmente a pensare al tempo stesso l’universale e il singolare, la solidarietà e la diversità, l’unità e la pluralità. E di conseguenza rifiutare risolutamente l’obbligo neocolonialista di assimilarsi, che vuole costringere una parte dei nostri connazionali (di cultura musulmana, di origine araba, di pelle nera eccetera) a cancellarsi per dissolversi, insomma a sbiancarsi. In breve, un’assimilazione che li accetta soltanto se spariscono.

Il nodo che oggi blocca la Francia, e che dobbiamo sciogliere tutti insieme, è questa nostalgia di un modello d’integrazione che in passato fu senza dubbio di un’efficacia formidabile, ma che ha funzionato soltanto in un rapporto asimmetrico fra forte e debole. Era il modello di quella très grande France a cui l’impero coloniale garantiva un rapporto con il mondo che essa considerava stabile e duraturo, se non immutabile. All’apparenza la diversità, dominata e oppressa, riconosciuta o celebrata, in ogni caso folklorizzata, vi aveva il suo posto. Ma rifiutando le emancipazioni delle vere uguaglianze, quella visibilità era solo un vantaggio della potenza, che si trattasse della promozione assimilazionista, oppure della solidarietà in nome della fratellanza. L’altro era riconosciuto tale soltanto con il beneplacito dei dominatori, e solo a condizione di sottomettersi a essi.

Bisogna opporsi con un immaginario alternativo, creativo, che mobiliti, elevi e liberi

Da più di mezzo secolo, cioè da quando quest’illusione si è dissipata nella lacerazione violenta delle guerre coloniali, la Francia – almeno quella delle élite politiche, economiche e accademiche – non riesce ad accettare la nostra nazione per com’è diventata, per come vive e lavora, per come cresce e si realizza. Invece che accendere fari per illuminare il futuro che qui s’inventa, chi ci governa guarda nel retrovisore di un passato ormai tramontato.

Di fronte alla parola “multiculturalismo” – che è la semplice constatazione della diversità della Francia e della ricchezza delle relazioni che vi si tessono – si spaventano pensando a un “comunitarismo” presuntamente distruttivo, al quale contrappongono, con una fretta allarmata, lo scudo di un laicismo pieno di tensione, infedele alla laicità originaria.

Quindi non basterà opporsi di volta in volta alle esternazioni e alle violenze islamofobe, razziste e xenofobe: bisogna fare muro con un immaginario alternativo, creativo, che mobiliti, elevi e liberi. Quest’immaginario fu definito bene, sempre da Jean-Paul Sartre, in quell’energica denuncia dei nostri silenzi, delle nostre dimenticanze e delle nostre cecità che fu il suo L’antisemitismo. Riflessioni sulla questione ebraica, scritto all’indomani del genocidio:

Ciò che noi proponiamo è un liberalismo concreto. Intendo con questo che tutte le persone che contribuiscono con il loro lavoro alla grandezza di un paese hanno pieno diritto di cittadinanza in esso. Ciò che conferisce questo diritto non è il possesso di una problematica e astratta ‘natura umana’, ma la loro partecipazione attiva alla vita della società. Questo significa dunque che gli ebrei, come gli arabi e i neri, quando sono solidali con l’impresa nazionale hanno diritto di supervisione su questa impresa; sono cittadini. Ma hanno questi diritti come ebrei, neri o arabi, ossia come persone concrete.

È passato più di mezzo secolo e quest’orizzonte di riconciliazione con noi stessi, con il nostro popolo e con la sua diversità, è sempre lontano. Ciò che i nostri connazionali ebrei hanno conquistato a prezzo di sofferenze e difficoltà – essere ammessi come francesi ed ebrei – passando, con una necessaria deviazione, per il risveglio della memoria e la verità della storia, deve ancora essere conquistato in modo duraturo per i nostri connazionali musulmani, arabi e neri. Verità della storia, riconciliazione delle memorie: come si fa a non vedere che i nostri governanti tardano a intraprendere con chiarezza e determinazione questo cammino, accettato per gli ebrei di Francia, quando riguarda le altre ferite della nostra storia, le nostre cecità, i nostri crimini coloniali, nonché le vittime che li testimoniano?

Il tempo stringe. Di fronte alla triplice crisi – democratica, economica, sociale – che minaccia il nostro paese, a rinforzo dell’estrema destra è emersa una destra estrema che con caparbietà ha scelto di imboccare un cammino di divisione, di montare la Francia contro se stessa, in una guerra di identità, di origini e di religioni. L’oligarchia che da una trentina d’anni si è adagiata nella deregolamentazione e nel capitalismo finanziario vuole che i poveri (cioè tutti quelli che sono meno ricchi di lei) la lascino in pace e si facciano la guerra fra loro anziché ritrovare ciò che li unisce: condizione sociale, situazione salariale, ambiente comune, condizioni di vita e così via.

L’uscita della metropolitana in rue Jean-Pierre Timbaud a Parigi, il 25 novembre 2015. (Tyler Hicks, The New York Times/Contrasto)

Ecco perché la presidenza di Nicolas Sarkozy ha costantemente sparso questo veleno ideologico della disuguaglianza degli uomini e della gerarchia delle culture: dal dibattito abortito su un’identità nazionale al singolare, fino al discorso di Grenoble che prendeva di mira i francesi di origine straniera, passando per l’elogio delle civiltà superiori, senza tralasciare politiche migratorie sempre più repressive e ingiuste né la stigmatizzazione, attraverso i rom europei, di tutti quelli che rifiutano di essere inchiodati a un’unica identità o a un unico luogo.

Non erano solo parole: si è sprigionata così una violenza immensa e non soltanto simbolica. Lungi dal placarsi dopo la vittoria di François Hollande nel 2012, ha continuato a diffondersi e a crescere per colpa di un potere abitato dalla paura dell’ignoto e dell’inedito, incapace di sostenere, di enunciare e di difendere quel nuovo immaginario di cui tutti abbiamo bisogno. Questa violenza viene vissuta e subita nella carne e nell’anima da tutti coloro che essa addita e prende di mira per via delle loro origini, del loro aspetto o della loro religione. Vogliamo forse lasciarli soli, come se fosse una questione di sensibilità individuale e non di princìpi collettivi? Vogliamo restare indifferenti al rigurgito – non più alla periferia del dibattito pubblico, bensì al suo centro – delle ideologie assassine di ieri, di quella barbarie annidata nel delirio patologico delle civiltà smarrite? Vogliamo restare zitti?

Superiorità? Inferiorità? Perché non cercare semplicemente di trovare l’altro, di sentire l’altro?

In Causes communes (Stock 2011), un saggio sulla solidarietà fra ebrei e neri nata sulla base della consapevolezza condivisa delle persecuzioni di cui erano vittime, la socioantropologa Nicole Lapierre indica quello che potrebbe essere un vero sussulto, un umanesimo concreto che si rifiuta di uniformare o di banalizzare: si tratta dell’empatia, cioè della “capacità di prendere e comprendere il punto di vista altrui, di concepirne l’esperienza, il pensiero, i sentimenti, senza però fondersi e confondersi con lui”. È quell’umanesimo concreto, insiste, “a contrapporsi alla vecchia e detestabile ricetta dei poteri incerti, la quale consiste nello stigmatizzare certe popolazioni o nell’aizzarle le une contro le altre per creare un diversivo o uno sfogo. Neri contro ebrei, cristiani contro musulmani, gente di qui contro gente di passaggio, ma anche altri: in questo pericoloso inganno, poco importa chi siano i protagonisti”.

Illustrando questo percorso di elevazione, Nicole Lapierre cita lo scrittore André Schwarz-Bart – che in L’ultimo dei giusti (Feltrinelli 2012) ha narrato la persecuzione degli ebrei, e poi quella dei neri in La mulâtresse solitude (Seuil 1972) – il quale parlava del “potere che l’Io ha di dire Tu”.

Gli fa eco l’opera-vita di Frantz Fanon, psichiatra originario della Martinica, ex combattente della Resistenza francese, che sposò la causa dell’indipendenza dell’Algeria fino a trarne quell’immenso grido che è I dannati della terra (Einaudi 2007), il libro in cui si ritrovarono tutti i popoli del terzo mondo in lotta per la loro sovranità. Fanon, che s’impegnò per l’emancipazione di quelli che la lingua ufficiale del tempo definiva “i francesi musulmani d’Algeria”, ma combatté ogni tentativo di rinchiudere l’uomo nella sua origine: “Non si deve tentare di immobilizzare l’uomo, perché il suo destino è esser piantato in asso”. Fanon, che metteva in guardia, preveggente, dalla concorrenza fra vittime e dalla necrosi delle memorie, dicendo di rifiutarsi di essere schiavo della schiavitù dei suoi avi e al tempo stesso di voler collegare fra loro tutte le discriminazioni (“Un antisemita è necessariamente negrofobo”).

Fanon, infine, che nelle righe conclusive del suo primo libro, Pelle nera, maschere bianche (Edizioni Ets 2015), lanciava questo interrogativo la cui eco risuona ancora oggi: “Superiorità? Inferiorità? Perché non cercare semplicemente di trovare l’altro, di sentire l’altro, di rivelare l’altro? La mia libertà non mi è dunque data per edificare il mondo del Tu?”. E aggiungeva: “Mi sia consentito di scoprire e di volere l’uomo, ovunque si trovi”.

È questo il cammino che dobbiamo tornare a imboccare, a ritrovare e reinventare.

(Traduzione di Marina Astrologo)

Questo articolo è stato pubblicato il 26 dicembre 2015 da Mediapart.

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