01 aprile 2015 17:57
Festeggiamenti a Kaduna, in Nigeria, il 31 marzo 2015. (Nichole Sobecki, Afp)

“Vogliamo il cambiamento”, urlano alcuni giovani di Lagos che cantano e ballano all’annuncio dei risultati del loro seggio elettorale di Ikeja la sera del 28 marzo. In questo quartiere popolare della capitale economica della Nigeria il loro candidato, Muhammadu Buhari, ha ottenuto più di due terzi dei voti, mentre quattro anni fa, nello stesso seggio, era stato il presidente in carica Goodluck Jonathan a imporsi su Buhari con un vantaggio davvero impressionante.

Tre giorni dopo, la sera del 31 marzo, la loro gioia è ancora più grande. Il trionfo del loro candidato è ufficiale su tutto il territorio nazionale. La commissione elettorale ha appena annunciato che il candidato dell’opposizione ha conquistato più di quindici milioni di voti mentre il presidente in carica deve accontentarsi di tredici milioni. Il presidente uscente ha immediatamente ammesso la propria sconfitta e si è congratulato con il vincitore.

Uno scenario che ha suscitato stupore in numerose cancellerie diplomatiche occidentali, che contavano sulla vittoria del presidente uscente. Rinviando di sei settimane le elezioni presidenziali, secondo la maggior parte degli osservatori il regime in carica era riuscito a mettere a segno un colpo da maestro per destabilizzare l’opposizione. Quest’ultima non aveva più soldi per proseguire la campagna elettorale, costata già diversi miliardi di dollari. Solo il regime in carica, attingendo di sicuro alle casse dello stato, aveva le risorse necessarie a proseguire la campagna elettorale oltre il limite prestabilito. “Dal momento che in Nigeria tutto è essenzialmente una questione di soldi, il presidente ha comprato l’influenza che gli consentirà di essere rieletto con facilità”, prediceva un diplomatico europeo. In Nigeria però, come altrove in Africa, i tempi cambiano. Non basta comprare i consensi degli oga, gli uomini più influenti in Nigeria, per convincere gli elettori.

“Spesso ormai le persone in difficoltà economiche vanno ai raduni dei politici dietro compenso. Mangiano il cibo che viene loro offerto, prendono i loro soldi. Poi però, nel segreto dell’urna, votano come più gli piace”, fa notare un consigliere politico di Buhari. Nella Nigeria del 2015 come nel Senegal del 2012, le vecchie ricette non funzionano più. La compravendita dei voti funziona poco. L’elettore povero prende i soldi, ma poi vota secondo coscienza. Così nel 2012 in Senegal il presidente Abdoulaye Wade era convinto di poter essere rieletto con facilità perché aveva immesso più soldi nella campagna elettorale, ma non ne ha ricavato niente. Il presidente uscente è stato sconfitto dal suo avversario, Macky Sall.

Il nuovo presidente nigeriano, un musulmano del nord, ha naturalmente fatto il pieno di voti nella parte settentrionale del paese. Ha tuttavia ottenuto la maggioranza dei voti anche nel sudovest del paese, la regione yoruba. Qui, molti dei suoi sostenitori più accaniti non condividono le sue idee religiose. Più che le sue origini, li ha convinti il suo programma politico. Nel corso di tutta la campagna, Buhari ha martellato sul fatto che la lotta alla corruzione sarà la sua priorità.

Una promessa giudicata credibile dai nigeriani che hanno studiato il suo passato politico. Quando è stato al potere, tra il 1983 e il 1985, all’epoca del regime militare, il generale Buhari ha condotto una battaglia feroce contro la mancanza di disciplina, la sua war against indiscipline, per dirla con la sua terminologia bellicosa. Aveva fatto mettere in prigione molti uomini d’affari e politici che secondo lui erano corrotti. Anche dopo aver lasciato il potere, questo militare di carriera ha continuato a vivere in modo molto semplice. Afferma di non essersi mai arricchito. “Segno del suo modo di vita spartano, Buhari riceve persino i suoi ospiti di riguardo a piedi nudi, nella sua abitazione”, afferma con entusiasmo un diplomatico occidentale.

Un contrasto sorprendente con il regime di Goodluck Jonathan, durante il quale i soldi scorrevano a fiumi. Nel 2014, il governatore della banca centrale nigeriana Lamido Sanusi ha affermato pubblicamente che dalle casse dello stato erano “evaporati” venti miliardi di dollari. Un’affermazione ben presto confermata dalla ministra delle finanze Ngozi Okonjo Iwaela a cui tuttavia non ha fatto seguito alcuna inchiesta. I proventi del petrolio, che costituiscono il 95 per cento delle risorse valutarie del paese, sono oggetto di sottrazioni massicce. “Una percentuale compresa tra il 10 e il 20 per cento della produzione quotidiana sparisce. Tra i 200 e i 300mila barili al giorno. L’equivalente della produzione di un paese come la Guinea Equatoriale”, valuta un potente uomo d’affari secondo il quale le sottrazioni di fondi non avevano mai raggiunto i livelli toccati sotto il regime di Jonathan.

Un altro impegno che ha riscosso molta popolarità tra quelli assunti da Buhari ha riguardato la necessità di fare pulizia ai vertici dell’esercito nigeriano per lottare in modo più efficace contro Boko haram. Per il momento, le uniche vittorie conseguite contro gli islamisti radicali sono state quelle ottenute dalle truppe ciadiane che combattono sul territorio del loro potente vicino. Di fronte a Boko haram, l’esercito nigeriano si è abituato a fuggire.

Il presidente Goodluck Jonathan non ha fatto visita alle famiglie delle ragazze rapite a Chibok nel 2014. Un atteggiamento che ha indignato il premio Nobel per la letteratura Wole Soyinka e gli abitanti del nord della Nigeria, che si sono sentiti abbandonati dal potere centrale. Wole Soyinka ha dichiarato pubblicamente che il presidente Jonathan aveva fallito come leader e che non meritava di essere rieletto. A ottant’anni, la voce di Wole Soyinka conta sempre moltissimo in Nigeria, dove viene ritenuto la “coscienza morale”, soprattutto nel territorio yoruba, la regione che ha fatto pendere la bilancia dei consensi a favore di Buhari. L’opposizione ha dimostrato una notevole abilità nel corso di tutta la campagna elettorale. È riuscita a far passare come l’incarnazione del cambiamento un generale di 72 anni che era stato dittatore negli anni ottanta. “Al di là dell’abilità dimostrata da chi si è occupato della comunicazione per l’opposizione, se i nigeriani si sono entusiasmati per Buhari vuol dire che aspiravano al cambiamento. Più che il consenso nei confronti di un uomo, si è trattato del rifiuto di un regime e delle sue pratiche”, sottolinea Tunde Afolayan, studente di Lagos.

Gli sperperi del regime passato erano diventati ancora più insopportabili da quando la Nigeria è stata colpita duramente dalla crisi. Il crollo dei prezzi del petrolio ha provocato migliaia di licenziamenti nel settore petrolifero e un abbassamento cospicuo del potere d’acquisto.

I giovani elettori di Buhari, che lo chiamano baba (padre in hausa, la lingua del nord della Nigeria), sono stati i più determinati. “Non non abbiamo mai conosciuto elezioni trasparenti. Vogliamo poter finalmente scegliere il nostro presidente”, sottolinea uno studente che, come migliaia di altri, ha fotografato con il suo cellulare i risultati del suo seggio elettorale e li ha condivisi subito sui social network per impedire brogli di massa.

Ancora prima della chiusura ufficiale di tutti i seggi, domenica mattina, alcuni siti nigeriani (in particolare Sahara Reporters) avevano pubblicato il grosso dei risultati. Le redazioni di quei siti e i loro alleati avevano fatto i loro calcoli: un modo per indicare al regime al potere che non avrebbero tollerato le manipolazioni a cui erano stati abituati in Nigeria. Dall’alba del 29 marzo, poche ore dopo la chiusura dei seggi, i nigeriani sapevano che Buhari stava per vincere le elezioni e che aveva un vantaggio di diversi milioni di voti sul suo rivale.

Martedì sera, il 31 marzo, quando Goodluck Jonathan ha riconosciuto la sconfitta, Molara, una giovane dirigente di una multinazionale con sede a Lagos, ha esibito un grande sorriso. Non aveva atteso invano nel suo seggio, fino allo spoglio notturno: “Finalmente capiamo cos’è la democrazia. Finalmente assaporiamo l’essenza della democrazia. Per la prima volta dalla fine del regime militare nel 1999, abbiamo avuto un’alternanza al potere. Per la prima volta, grazie ai nostri voti, possiamo scegliere i nostri leader. In Nigeria per vincere le elezioni presidenziali non basta più avere i soldi. È una sensazione meravigliosa. Non pensavo che avrei visto questo giorno. Per una volta, sono fiera di essere nigeriana”.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it