13 gennaio 2001 00:00

“Su Battisti non ci siamo fatti capire”. Dopo la decisione del presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva di non concedere l’estradizione dell’ex membro dei Proletari armati per il comunismo (Pac), difeso anche da alcuni intellettuali francesi, il presidente della repubblica Giorgio Napolitano ha detto giustamente che “è mancato qualcosa alla nostra cultura e alla nostra politica per trasmettere e far capire davvero il senso di ciò che accadde in quegli anni tormentosi del terrorismo. Non siamo riusciti a far comprendere anche a paesi amici vicini e lontani cosa hanno significato”.

L’indignazione della stampa, della classe politica e dell’opinione pubblica italiana di fronte al rifiuto di estradare un ex terrorista condannato per aver partecipato a quattro omicidi è legittima.

Innanzitutto perché la decisione di Lula è in parte il risultato di una certa ignoranza della realtà degli anni di piombo e di una visione distorta della democrazia italiana di questi anni. E non è comprensibile l’atteggiamento di alcuni politici francesi, come l’ex leader socialista François Hollande, che hanno trasformato Cesare Battisti in una vittima della cosiddetta “guerra civile” italiana.

È probabile che esista una certa arroganza nei confronti dell’Italia e della sua complessità politica, o che alcuni protagonisti francesi del sessantotto siano stati afflitti da una morbosa forma di fascinazione per la lotta armata italiana, in un periodo in cui in Francia l’illusione rivoluzionaria si andava esaurendo.

È anche probabile che l’opinione pubblica straniera faccia fatica a immaginare uno scrittore, anche se ex terrorista, estradato per fatti risalenti a trent’anni fa in un paese governato da un premier che non perde occasione per attaccare i giudici. Il tutto con una parte dell’opposizione che grida al regime e denuncia un nuovo fascismo in Italia.

È con questo retroscena confuso, strumentalizzato dai difensori di Battisti, che l’opinione pubblica, soprattutto in Francia, ha seguito la vicenda.

“Non ci siamo fatti capire”, dice giustamente Napolitano. Ma sarebbe utile cercare di capire il perché. Se “gli anni tormentosi del terrorismo” non sono stati analizzati e percepiti in tutta la loro tragica complessità all’estero, bisogna anche ammettere che neanche l’Italia ha avviato una vera e profonda riflessione storica sugli anni di piombo.

Una mancanza che, al di là del caso Battisti, si percepisce in particolare a proposito della dottrina Mitterrand, che viene generalmente considerata il frutto di una presa di posizione ideologica dell’allora presidente francese mentre era prima di tutto una scelta pragmatica.

Con centinaia di militanti italiani sul territorio francese, e con il rischio che questi, clandestinamente, cercassero delle alleanze con i gruppi radicali locali, Mitterrand decise di non estradare gli estremisti a patto che rompessero con “la macchina infernale” del terrorismo.

Fu una decisione politica, non rispettosa della giustizia e delle vittime, ma che permise senz’altro di non versare altro sangue. Fino al 2001 tutti i governi francesi, sia di sinistra sia di destra, hanno seguito questa prassi. Ma anche in Italia alcuni hanno considerato positiva questa soluzione.

Il libro degli anni di piombo (Rizzoli 2010), curato dallo storico Marc Lazar, ricorda come l’allora capo del governo Bettino Craxi disse all’ambasciatore francese Martinet “fanno pressione su di me perché chieda l’estradizione di Toni Negri (…). Ma non voglio il suo ritorno. La sua fuga l’ha screditato ma, se torna, sarà duramente condannato e sembrerà un martire”.

Come per ogni scelta politica, niente impedisce di rivedere la dottrina Mitterrand. Ed è ciò che è successo a partire dal 2001, anche se può apparire criticabile un paese che dopo vent’anni cambia linea verso gli ex terroristi che hanno rispettato l’impegno ad abbandonare la lotta armata e a considerare chiusi gli anni di piombo.

In questo senso ciò che sembra più intollerabile del caso Battisti è l’ostinazione dell’ex militante dei Pac a sostenere ancora oggi di essere fuggito da uno “stato d’eccezione” e di essere una vittima innocente, nonostante le testimonianze e i verdetti a suo carico.

Malgrado alcune leggi d’emergenza, l’Italia ha avuto la forza di risolvere la questione del terrorismo senza travolgere lo stato di diritto e la politica è riuscita a favorire intelligentemente la chiusura di questo periodo con un sistema di premi ai carcerati. Ma poi il paese ha voltato pagina senza più approfondire questo periodo buio della sua storia. “È mancato qualcosa”, ha detto il presidente Napolitano.

È mancata, soprattutto, l’apertura degli archivi anche per fare luce sulle stragi. È mancato un lavoro storico per ricostruire e contestualizzare gli anni di piombo, e questo ha scatenato passioni e incomprensioni che vanno ben oltre il caso Battisti.

Internazionale, numero 880, 14 gennaio 2011

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