18 novembre 2014 10:53

A Vienna, nella sede dell’Aiea, comincia una settimana decisiva. Oggi i negoziatori dell’Iran e del gruppo 5+1 (Stati Uniti, Russia, Cina, Regno Unito, Francia – membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu – e Germania) danno il via all’ultima tornata di colloqui sul nucleare iraniano per raggiungere un’intesa definitiva entro lunedì 24 novembre, come previsto dall’accordo di Ginevra di un anno fa. Al di là degli innumerevoli dettagli tecnici da discutere – dalle percentuali di arricchimento dell’uranio al numero di centrifughe che Teheran potrà mantenere attive – l’obiettivo è sempre lo stesso: una parte vuole impedire all’Iran di ottenere la bomba atomica (non credendo alle rassicurazioni iraniane); l’altra vuole cancellare le sanzioni internazionali che stanno strangolando la sua economia.

Quali sono le probabilità di risolvere una questione tanto complessa da essere paragonata al “cubo di Rubik”? Gli ottimisti fanno notare che il momento non è mai stato tanto propizio, che è nell’interesse di tutti raggiungere un’intesa, che vecchi nemici come gli Stati Uniti e l’Iran sono praticamente alleati nella guerra contro l’organizzazione Stato islamico, e che l’accordo sul nucleare potrebbe aprire la porta alla soluzione di altre crisi (come quella siriana).

Una lettera aperta firmata da sette politici europei, tra cui l’ex ministra degli esteri Emma Bonino, invita i negoziatori a non perdere tempo e a non posticipare il raggiungimento di un accordo. Ma altrove prevale il cinismo: alla resa dei conti, sia in Iran sia negli Stati Uniti prevarranno le forze più conservatrici e ostili al cambiamento. Secondo il New York Times, i consiglieri di Obama stimano una percentuale di riuscita intorno al 40-50 per cento. Quindi, il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto?

C’è anche chi, come l’Economist, suggerisce che in fondo l’accordo in sé conta fino a un certo punto, che l’importante è la strada fatta insieme finora, che l’Iran è un paese diverso da quello di trent’anni fa, e oggi il fervore rivoluzionario ha lasciato il posto alla ricerca del benessere materiale e al pragmatismo. “Se ce la fanno, bene. Se no, non sarà un disastro”: una prospettiva molto meno apocalittica.

Francesca Sibani è l’editor di Africa e Medio Oriente di Internazionale.

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