18 dicembre 2014 14:08

Questo giovedì 18 dicembre, giornata internazionale dei migranti, decine di loro lo passeranno dietro le sbarre dei centri belgi di identificazione ed espulsione.

Per esempio D., che ha lasciato il suo paese per andare a studiare in Inghilterra, è ricercato nel suo paese di origine per un crimine che non ha commesso ed è detenuto da otto mesi.

M. è stato arrestato ad agosto, è affetto da una grave forma di diabete e gli proibiscono di tenere insulina e cibo nella sua camera, consigliandogli invece del paracetamolo e delle docce calde per calmare le sue crisi di panico.

A., separato da sua moglie e da suo figlio da quattro mesi, è detenuto nonostante un tribunale abbia espresso parere favorevole alla sua liberazione (ma l’Office des étrangers, che dipende dal ministero dell’interno ed è responsabile della “gestione della popolazione immigrata”, ha presentato ricorso).

T., studentessa di liceo, fermata ieri durante un controllo d’identità in un negozio di vestiti, è stata subito trasferita in un Cie.

“I can’t breathe”, sono state le ultime parole di Eric Garner, ucciso a luglio da alcuni poliziotti a New York, ma anche quelle di Jimmy Mubenga, morto durante un tentativo di espulsione dal Regno Unito nell’ottobre del 2010. Due giorni fa, le tre guardie private che lo stavano scortando sono state scagionate dall’accusa di omicidio. Per la giuria hanno solo fatto il loro dovere cercando di immobilizzare Mubenga sull’aereo che doveva riportarlo in Angola, lontano da sua moglie, dai suoi figli e dal paese dove viveva dal 1994.

Oggi in Europa i migranti e le migranti (se proprio vogliamo chiamarli così), con o senza documenti, sono soffocati da leggi che li discriminano e li criminalizzano. Per questo, finché le cose non cambieranno, il 18 dicembre rimarrà una giornata di lotta.

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