14 marzo 2015 16:56

Non è una giornata mondiale come le altre. Non è stata istituita dalle Nazioni Unite, la conoscono ancora in pochi, ma è nata per denunciare una realtà che tocca molte persone, come ci ricorda in questi giorni la rivolta di Ferguson: gli abusi di polizia.

Lanciata nel 1997 da due collettivi, il Drapeau Noir in Svizzera e il Collectif opposé à la brutalité policière in Canada, la giornata internazionale contro le violenze della polizia cade il 15 marzo. Quest’anno sono previste iniziative in Canada, in Francia, in Germania e in Belgio, dove la campagna Stop répression organizza una manifestazione per il quarto anno di seguito a Bruxelles.

Due anni fa, poco dopo la creazione dell’Osservatorio delle violenze della polizia in Belgio, avevo intervistato una delle ideatrici, Geneviève Parfait. Da allora, insieme a un gruppo di volontari, Geneviève porta avanti il lavoro di raccolta e analisi delle denunce. “Ma sono ancora poche”, ammette.

Come si legge nell’introduzione del primo rapporto dell’Osservatorio, “l’obbligo di fornire la propria identità in cambio della promessa di un anonimato e di una riservatezza totali non è ancora sufficientemente rassicurante”. Il rapporto presenta ottantotto casi di violenza – verbale, psicologica e fisica – e conclude rispondendo alla domanda seguente: “Perché è necessario un controllo cittadino degli abusi di polizia?”. La risposta, in quattro punti, vale per molti paesi:

  1. Perché non esiste un organo di controllo della polizia veramente indipendente.
  2. Perché le autorità sono incapaci di fornire un quadro chiaro e trasparente del fenomeno degli abusi di polizia e perché i numeri sono manipolati.
  3. Perché alcune vittime di abusi sono scoraggiate dallo sporgere denuncia e le autorità non le informano a sufficienza sui loro diritti.
  4. Perché non c’è nessuna trasparenza sul contenuto delle denunce e perché non si dà mai la parola alle vittime di abusi di polizia nei rapporti ufficiali.

In Belgio, assicura Geneviève, sono in aumento gli abusi di polizia contro le persone senza documenti. La settimana scorsa tre agenti sono comparsi davanti a un giudice accusati di “percosse e atti di tortura” contro un uomo senza documenti. Riconoscono di aver fermato l’uomo e di averlo abbandonato, mezzo nudo, in un bosco, ma negano di averlo maltrattato. Questi tre agenti probabilmente sanno che non rischiano nulla, ma poteva andargli ancora meglio: potevano non essere neanche identificati.

L’anno scorso la rete Avvocati europei democratici ha lanciato una campagna a favore di una direttiva europea che renda obbligatorio il riconoscimento degli agenti di polizia. In Italia quest’obbligo non esiste. “In Belgio in teoria sì”, spiega Geneviève, “ma la legge prevede anche che un agente, se ‘le circostanze lo impongono’, possa non portare una targhetta di riconoscimento. Di fatto quasi nessuno la porta e le sanzioni disciplinari non sono mai applicate”.

Il ferimento di due poliziotti a Ferguson, nella notte tra il 12 e il 13 marzo, rischia di mettere in ombra un fatto molto più grave perché strutturale: esistono città e quartieri, negli Stati Uniti come in Europa, dove i cittadini, soprattutto se giovani, di sesso maschile e non abbastanza bianchi, si aspettano di essere fermati, insultati, maltrattati, feriti o uccisi da agenti di polizia in servizio.

È quanto emerge dal recente rapporto su Ferguson pubblicato dal ministero della giustizia statunitense, a seguito del quale si sono dimessi il capo della polizia e il direttore generale della città. È quanto raccontano i ragazzi di alcuni quartieri di Bruxelles, che sanno benissimo di avere dei diritti, ma che di fronte alle provocazioni di un poliziotto preferiscono lasciar perdere: “Altrimenti ti portano in commissariato e ti riempiono di botte”.

Negli Stati Uniti il movimento contro gli abusi di polizia, come quello contro le espulsioni di persone senza documenti, sta crescendo grazie all’impegno delle famiglie delle vittime e al coinvolgimento di intere comunità. Una delle città più attive è Oakland, teatro di una nota vicenda giudiziaria, il cosiddetto caso Riders, dal nome di un gruppo di poliziotti finiti sotto processo nel 2003 perché accusati da 119 cittadini, quasi tutti afroamericani, di aver commesso numerosi abusi.

Sempre a Oakland nel 2014 si è svolta un’indagine giornalistica indipendente, presentata sul sito Oakland police beat, che proponeva dati, analisi e articoli sugli agenti finiti sotto inchiesta. Un esempio di data journalism al servizio di una lotta sociale, una delle tante iniziative che si susseguono a Oakland e altrove. E se il traguardo sembra lontano – corpi di polizia il cui operato sia responsabile, trasparente, perseguibile – bisogna farsi coraggio ricordando, come fa l’attivista Cat Brooks sul sito indipendente Oakland local, che “ci sono voluti tra i venti e i trent’anni di organizzazione per arrivare al boicottaggio degli autobus a Montgomery”.

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