07 ottobre 2015 12:41

Un mondo fragile del colombiano César Acevedo è prima di tutto un film di notevole umanità. Ma fa anche capire con finezza molte cose dall’interno: dall’interno di un paese, la Colombia appunto, dall’interno di una regione precisa, la valle di Cauca dominata dalle vaste distese di piantagioni di canna da zucchero fondamentali per la sua economia, dall’interno di una classe sociale, i braccianti di quella zona. E, più semplicemente, dall’interno di una famiglia di umili origini, di contadini.

Splendido ritratto di esseri umani, di volti umani, il film pare anche alludere alla questione ambientale, climatica, e più in generale al rapporto tra uomo e natura, andato perduto forse per sempre.

Vincitore quest’anno a Cannes del premio Camera d’or, assegnato da una giuria apposita che sceglie il miglior esordio tra tutte le sezioni del festival, il film racconta davvero un mondo fragile, delicato, giunto sull’orlo del precipizio, e lo sguardo del regista riesce a suscitare nello spettatore un desiderio di protezione.

Questo è il ritratto di un popolo annientato da una visione paradossale del progresso

Perché La tierra y la sombra, questo il titolo originale, è un mondo sul punto di dissolversi, una terra luminosissima che sta per scivolare nell’ombra. Un film di zombie potenziali che vogliono a tutti i costi rimanere umani, mentre l’oscurità fa di tutto per risucchiarli. Parlando di loro il regista ci parla anche di noi, del nostro rapporto sempre più malato con il mondo, inteso come pianeta.

Alfonso, un uomo anziano ma ancora energico, è tornato a casa dopo diciassette anni di assenza. Partito per lavorare altrove, ora è al capezzale del giovane figlio gravemente malato. L’abitazione è infatti situata in prossimità dei campi di canna da zucchero, e il loro sfruttamento provoca una pioggia continua di cenere.

Nella casa vivono anche la moglie, abbandonata a suo tempo da Alfonso, la moglie del figlio e il nipotino. Una famiglia presa a paradigma di un ceto sociale e, come abbiamo detto, di un vasto mondo. Un microcosmo fatto di niente, un nulla dove ci sono però poche cose essenziali: una casetta, un grande albero che offre una vasta ombra, una panchina e canne da zucchero a perdita d’occhio. Una natura da arte povera.

Un mondo fragile

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Film presagio che parte dal minimale per parlare di un’apocalisse, piccola e grande assieme, coniuga la denuncia delle condizioni lavorative nel contesto colombiano a una denuncia più ampia.

Si delinea infatti il ritratto, per usare le parole del regista, “di un popolo annientato da una visione paradossale del progresso”. Questa visione, o meglio questa non visione, è quella con cui ci confrontiamo noi cittadini dei paesi “ricchi”.

Il dibattito suscitato da forze politiche diverse, ma dal progetto dissonante rispetto alle istituzioni in paesi come la Grecia, la Spagna e il Regno Unito, ne è la testimonianza forse più netta perché, pur proponendo ricette economiche che trent’anni fa non sarebbero apparse estremiste, oggi sono viste quasi come forze eversive.

Ma è anche la non visione sulla questione climatica che stenta a trovare soluzioni serie, tempestive e costanti nel tempo, malgrado il fenomeno del riscaldamento globale ci possa realmente portare a situazioni simili all’apocalisse descritta nel romanzo di Cormac McCarthy La strada, dove la natura è ormai cenere, vestigia di sé stessa.

In Un mondo fragile il regista, nel delineare il suo scenario di apocalisse progressiva, forgia un’immagine feticcio: l’inquadratura con quasi tutta la famiglia al di fuori dell’abitazione immersa nell’oscurità di una nube di fumo, a metà strada tra il quadro e il teatro, ma priva di ostentazione, è un’immagine che riassume il film. Vero exploit, Acevedo ha legato la descrizione del minimale e del povero a un messaggio universale e ricco.

Apocalisse dunque. Eppure la solidarietà non manca tra gli umili, come dimostrano le sequenze dei braccianti che aiutano, rischiando, la nuora di Alfonso, anche lei lavoratrice in quei campi e in guerra con i suoi capi per far curare il marito. Il mondo potrà evitare l’apocalisse e tornare a un nuovo inizio solo se riparte dall’umano e dalla semplicità, non perdendo di vista la crescita economica, ma sapendola gestire in favore della persona, nel quadro di un ritorno dei valori umanistici.

Film intimo proveniente dall’intimo delle esperienze dell’autore, frutto di dolori familiari, rielaborazione di un iniziale progetto autobiografico, disperato ritratto intriso di sentimento di un popolo rurale (s)perduto, abbandonato a sé stesso – ritratto che coglie e fissa in maniera paritetica un sentimento che è anche il nostro –, interrogazione con piccoli tocchi sapienti sull’identità popolare e umana tout court, analisi sottile dei meccanismi familiari e delle sue disfunzioni, Un mondo fragile, unendo attori professionisti e non professionisti in maniera perfetta, fuori campo mette insieme due povertà che la globalizzazione ha messo le une contro le altre: poveri dei paesi poveri e poveri dei paesi ricchi. E lo fa in modo tutt’altro che fragile.

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