03 giugno 2016 19:44

La giuria presieduta da George Miller ha fatto decisamente meglio di quella dell’anno passato. Sono stati premiati mediamente film innovativi e di registi emergenti, in un concorso nel complesso eccellente, anche se privo di capolavori assoluti. La giuria ha però mancato di premiare fino in fondo l’innovazione, in particolare con il film Ma’ Rosa del filippino Brillante Mendoza, ambientato nei quartieri più poveri di Manila, un film più grande di quanto possa sembrare a prima vista che meritava la Palma d’oro. Bene ha fatto comunque la giuria a premiare l’attrice protagonista.

I giurati hanno comunque inviato un messaggio indiretto ma forte: i vecchi rimasti fedeli a se stessi, come Jeremy Corbyn o Bernie Sanders in politica, sono oggi gli unici ancora capaci di auscultare l’umano in senso ampio. Premiando con la Palma d’oro I, Daniel Blake, non un capolavoro ma il miglior Ken Loach da molti anni, hanno premiato un’opera che non è soltanto contro la burocrazia ma contro la tecnocrazia al servizio del neo-liberismo. Loach ha sapientemente messo questo aspetto al centro del film, ponendo però il proprio punto di vista dal basso. Rivelando un bisogno comune di lanciare un urlo d’indignazione, o per restare al film un graffiti murale che quasi trascende le qualità artistiche. Nessun altro lo ha fatto.

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Peccato per l’assenza di un premio al film tedesco Toni Erdmann di Maren Ade, amato dalla critica francese. Nella prima parte soffre di una mancanza di densità, ci fa però vedere una Romania come un non-luogo, il viaggio d’affari come certo turismo di non-conoscenza. Olivier Assayas, premiato ex-aequo con il rumeno Mungiu, fa un cinema di regia, nel senso che fa sentire la camera, ma la sua è una camera aerea, ma che spesso fa “sentire” i luoghi, che sa impregnarsene malgrado la sua volatilità. Il suo film Personal Shopper è più sottile e profondo di quanto non sembri ma certe soluzioni di sceneggiatura da cinema di genere di serie b sembrano amalgamarsi male con il resto. Un problema, quello di ibridare cose molto diverse tra loro senza riuscirci purtroppo comune a più di un film di Assayas.

Il cinema è un’arte di dispositivi e il cinema rumeno come quello iraniano hanno la tendenza a farteli sentire. Quello di Sieranevada di Cristi Puiu è opprimente quasi come un regime di Ceausescu. Dispiace perché il film è zeppo di aspetti e momenti interessanti quanto originali, ma il pilastro concettuale non è abbastanza compensato da un eguale pilastro che esprima la dimensione empatica o interiore. Il Mungiu di Bacalaureat, invece, se la cava decisamente meglio e quindi il premio per la miglior regia (ex-aequo con Assayas) ci pare più che meritato.

L’iraniano Asghar Farhadi, arrivato in chiusura di concorso, non raggiunge certo i livelli di Una separazione, però in Le client l’intensità a tratti non manca, soprattutto nella seconda parte. Ma è molto dimostrativo della sua tesi e questo lo rende a momenti noioso. Forse i cineasti iraniani di oggi dovrebbero riguardare bene il neorealismo italiano, alla naturalezza dei film di Rossellini e De Sica. Comunque la sceneggiatura nel complesso è meritevole, e l’attore protagonista Shahab Hosseini sorprendente.

Infine qualche riga su tre film importanti esclusi dal palmarès. Ma Loute di Bruno Dumont ha alcune cose meravigliose, come l’ambientazione. Ma Dumont, uno dei cineasti francesi di maggior interesse e profondità, sembra qui fare un po’ il verso ai fratelli Podalydés, che da anni fanno commedie di questo tipo, spesso rétro e influenzate dai fumetti (Tintin) o dai romanzi di Gaston Leroux. Ma con i loro film si ride. La critica francese ha presentato il film di Dumont come una commedia davvero divertente, eppure alla proiezione con il pubblico nessuno rideva.

La recitazione è talmente carica che all’inizio sembra quasi che gli attori recitino male, fanno cioè sentire che stanno recitando un personaggio. Questo perché Dumont rappresenta i borghesi come delle supercaricature: si opera così un contrasto con il mondo proletario dei marinai che sono invece delle caricature ‘naturali’, dei Popeye della realtà ma cattivi, all’opposto della visione pasoliniana. Idea geniale ma non sviluppata abbastanza in profondità pur tenendo conto del tono leggero del film. Al contrario di Rester vertical di Alain Guiraudie, escluso dal palmarès. Peccato anche per Elle di Paul Verhoeven. Con Rester vertical erano gli unici film folli in concorso.

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Le sezioni parallele

Rispetto alla competizione dell’anno scorso, che presentava una deriva preoccupante verso il televisivo e l’inconsistenza (del resto il nuovo presidente Pierre Lescure viene dalla tv, non è un critico come Gilles Jacob), il concorso di quest’anno ha segnato una netta rinascita. Anche rispetto alle annate precedenti. Non resta che augurarsi una rinascita della selezione parallela Un certain regard. Non perché non ci fossero buoni film, ma perché troppo formattata: buon cinema d’autore senza asperità né grandi sperimentazioni. Elementi che invece non sono mancati nella Semaine de la critique (diretta da un critico di alto livello come Charles Tesson). Nel film vincitore, Mimosas del francospagnolo Olivier Laxe, di cui ha scritto Lee Marshall. Ma anche in I tempi felici verranno presto, di Alessandro Comodin, una delle rivelazioni del festival e senz’altro il miglior film italiano.

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Il film di Comodin è piaciuto molto alla stampa francese che in generale ha dato più spazio alla Semaine che alla Quinzaine des réalisateurs, di solito la principale fucina di rivelazioni. Il suo direttore Edouard Waintrop, ex critico di Libération, ha voluto quasi creare un secondo concorso infarcendo questa sezione storica con nomi di richiamo come Bellocchio, Virzì, Schraeder, Jodorowsky, Larrain. Anche Olivier Père, indimenticabile direttore degli ultimi anni della Quinzaine, talvolta ha usato qualche nome forte, come Coppola nel 2009 con Tetro, ma fondamentalmente come simbolo di cinema anticonformistico e come locomotiva che trainava gli altri vagoni, sconosciuti o quasi. Ma un treno composto con tante locomotive e con pochi vagoni che senso ha?

Difficile la scoperta dei nuovi talenti, che è il senso principale dei festival. Il problema si pone anche considerando che i pochi film dovuti a nuovi registi fossero buoni e siano stati premiati, come Wolf and sheep di Shahrbanoo Sadat e soprattutto il sorprendente Mercenaires di Sacha Wolff, o ancora l’ottimo Divines della franco-marocchina Houda Benyamina, vincitore della Camera d’or, il premio che una giuria apposita attribuisce a un film d’esordio scelto tra tutte le sezioni. Staremo a vedere cosa accadrà con l’edizione dell’anno prossimo, la settantesima, che si annuncia fastosa.

I segreti del concorso

Tornando al concorso c’è tuttavia un aspetto più intimo, segreto, celato da gran parte dei film del concorso, tranne poche eccezioni. Come un’anima comune, pur nella loro grande diversità. Gli artisti lavorano molto sulle sfumature, consciamente e inconsciamente e i due aspetti si mescolano inestricabilmente. Spesso, non sempre,
capita che gran parte dei film selezionati in una data sezione, se non nell’intero festival, presentano nel profondo, esplicitamente o sottotraccia, una connotazione comune che i selezionatori, di solito critici, sembrano seguire, molto probabilmente senza rendersene pienamente conto, a metà tra razionalità e “l’oscuro abitatore” dell’artista, di cui parlava Federico Fellini.

Non è la prima volta che colgo questo aspetto, diverso da festival a festival e anche diverso tra le varie edizioni dei singoli festival, e voglio qui esplicitarlo. Nel caso di quest’edizione di Cannes, direi che è la ricerca di stare il più vicino possibile all’umano, inteso nella sua massima espressione, l’umano con la U maiuscola. I francesi direbbero “Au plus près de l’humain”, che non è esattamente in prossimità dell’umano (“en proximité de l’humain”) ma qualcosa di più. Non l’uomo soltanto, ma l’umano che si estende alla donna, alla natura, all’auscultazione del mondo in senso quasi panteistico. Ma partendo dall’intimo degli esseri umani, insetti costretti nel loro piccola vita particolare. Con risultati magari diseguali, ma sempre interessanti.

Sul Daniel Blake di Loach si può aggiungere che l’obiettivo dell’autore, oltre a criticare la tecnocrazia partendo dal basso, cioè la burocrazia contro l’uomo comune, si attacca su Blake e la sua giovane amica, in maniera simbiotica, facendo corpo unico tra sessi e generazioni diverse. In Paterson di Jim Jarmush, film minimale ambientato in una provincia tranquillissima, il regista si pone in prossimità di una coppia che vive la poesia e l’arte vissute a loro volta in prossimità, come un piacere quotidiano, ma dove i grandi problemi che attanagliano l’America sono del tutto fuori campo. In Loving di Jeff Nichols, la costruzione caratteriale della coppia di coniugi che nel 1958 sfidò le leggi della Virginia con un matrimonio misto, lui bianco lei nera, rischiando il carcere e vincendo nel 1967 una storica sentenza della Corte Suprema, è quanto dà forza all’opera che altrimenti resterebbe un dignitoso film tv.

Nichols gioca sul rovesciamento dei ruoli. Lei è dinamica, intelligente e vuole mettersi in sintonia con il movimento dei diritti civili e con i media: sembra quasi una donna bianca emancipata. Lui è un orso buono, un uomo che non crede più nelle autorità e forse nemmeno nella comunità: sembra quasi un nero disadattato. Ma per concentrarsi sull’intimo di questa coppia-specchio Nichols mette la storia dell’epoca quasi tutta fuori campo, come l’elezione e l’assassinio di John Kennedy o l’escalation del Vietnam. Come la mitica stagione di Bob Kennedy e la storica marcia per i diritti civili del 1963 guidata da Martin Luther King.

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Nel magnifico road-movie pop American honey di Andrea Arnold una comunità di giovani marginali invece di girare in tondo in un piccolo limbo statico preferisce girare in tondo lungo l’America, la quale si rivela però un gigantesco limbo statico. È filmata come fosse un organismo o un agglomerato unico, una prossimità dell’umano totalizzante malgrado differenze e divergenze del gruppo, di cui è specchio l’empatica cinepresa dell’autrice.

Se Arnold sancisce la fine del road movie e quindi i limiti della (nuova) frontiera, altrove questa prossimità dell’umano invece di prendere corpo, assume le sembianze di fantasmi persecutori, siano essi della mente o metafisici: la ragazza americana un po’ medium in Personal shopper di Olivier Assayas, film dalle atmosfere piuttosto intense, vuole o non vuole (ri)vedere il fratello morto? Quando chiede insistentemente al fratello Luke se è lui, interroga se stessa? E quando infine va dal fidanzato in Nordafrica, fino a quel momento volto virtuale su un computer, lui continua a non vedersi: esiste davvero o si tratta di un altro fantasma? La ricerca dell’umano diventa un’ossessione, quanto verso un bisogno di rinascita, quanto verso il biancore del nulla, chi può dirlo.

Proprio come nel film di Maren Ade e ancora di più in quello di Pedro Almodóvar. In Toni Erdmann Ade usa un personaggio anarchico, ispido come il padre che s’inventa a sua volta un personaggio, appunto Toni Erdmann, al fine di riportare alla vita vera, autentica, la figlia. Atto d’accusa al neoliberismo che depaupera i rapporti umani, la capacità di creare empatia reale tra le persone come verso i luoghi visitati, trova la sua scena paradigmatica nel padre travestito da Yeti per la strada: un animale raro, anzi inesistente, è lo strumento disperato per cercare una prossimità umana con una figlia sempre indecisa se cancellarlo o recuperarlo.

Almodóvar, che non ci dona più capolavori dai tempi di Tutto su mia madre o Parla con me, ma che sembra redivivo con un film davvero sentito, racconta in Julieta l’apocalisse dell’intimo di una donna come fosse quella del mondo intero: filma tutto in ambienti ovattati, quasi nessuna immersione nella folla. Il mondo diviene estraneo, inconoscibile. L’intimo è però quasi uno specchio del mondo reale di oggi, con domande terribili, atroci: perché la figlia la ripudia a tal punto? Quanti omicidi morali commettiamo, cancellando dalla nostra vita esseri umani che ci hanno amato e abbiamo amato? Il film è immerso in un atmosfera sospesa, irreale, come nella splendida sequenza blu notte del cervo che insegue il treno in una campagna innevata, una delle più magiche viste al festival.

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E Xavier Dolan di Juste la fin du monde? Nel suo dramma borghese, ma di una borghesia umana e rispettabile, si lavora enormemente sui non detti: forse qualcuno della famiglia ha capito quello che il protagonista, pentito di aver quasi cancellato la propria famiglia per le sue ambizioni artistiche, cerca di esprimere circa la propria morte prossima ma che lui non riesce a esplicitare. Dolan si attacca all’umano, cerca disperatamente di farcene cogliere l’importanza fondamentale, creando un’equivalenza tra l’umanità intera e pochi intimi. Un umano, quello del film di Dolan, che potremmo riassumere nell’immagine di due amanti che si abbracciano prima dell’apocalisse, qualsiasi essa sia. In una lunga intervista al settimanale francese Les Inrockuptibles pubblicata durante il festival Dolan ha dichiarato: “La nostra civilizzazione è in caduta libera. Potrebbe essere il crollo del sistema capitalista, o una catastrofe climatica. I due elementi sono a ogni modo contigui. Sono cose che conosco poco, ne ho una comprensione infantile. Ma lo so, lo sento. Vedo la decomposizione del tessuto sociale. Trump è la fine della civilizzazione. Di questo sentimento apocalittico se ne possono vedere i segni dappertutto. Il mondo è a ferro e fuoco. È Bisanzio. Alla fine. Chiunque lo neghi nega la realtà”.

Questo il non detto del suo film. Il riscaldamento climatico, i profughi inarrestabili, il gruppo Stato islamico, Trump o Marine Le Pen: perfino gli autori, abituati a interpretare il mondo, sono annichiliti. E allora, che si tratti di guardare al sociale o al dramma familiare, borghese e non, gli artisti si concentrano sugli esseri umani, sulla loro piccolezza che può essere così grande, inviando un messaggio antidoto contro l’apocalisse perché non si avveri il film-presagio di Lars Von Trier, la sua Melancholia. Potremmo continuare a lungo: su La fille inconnue dei fratelli Dardenne, del quale pensiamo probabile una rivalutazione al momento dell’uscita in sala, o sul brasiliano Acquarius di Kleber Mendonça Filho, o sui due film rumeni e Le Client di Farhadi, o ancora sullo straordinario Rester Vertical di Guiraudie.

Ma non possiamo dimenticare l’anonima Ma’ Rosa nello straordinario film di Brillante Mendoza: la cinepresa che stringe sui poveri e in particolare sulla protagonista. Questi poveri, ripresi con una cinepresa incollata a loro mentre tentano di rimanere a galla nell’acqua sporca dei gironi infernali di una bidonville, ci bastano per dire che lasciar fare l’apocalisse sarebbe profondamente immorale. Ogni particella dell’umano è un tesoro dall’inestimabile valore, un’opera d’arte la cui cancellazione è assolutamente criminale. Così si può condensare tutto quello che si è visto in gran parte dei film. Perché il mondo senza l’umano tale non è più.

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