05 ottobre 2016 19:00

Caldo e freddo, poetico e analitico, classico e sperimentale, in bianco e nero e a colori, rivisitazione del passato e commento suggerito del presente, Frantz di François Ozon è un film che lavora sulla citazione e la rivisitazione ma che poi (re)inventa, che sembra giocare mentre invece vuol essere grave. Al contrario del cinema postmoderno, che del resto comprende molti titoli dello stesso Ozon.

Alla base di questo film profondo e complesso c’è il libro pacifista L’homme que j’ai tué (1925) del poeta, scrittore e drammaturgo Maurice Rostand, trasformato poi dall’autore in una pièce ricca di riferimenti alla sua vita gay, che all’epoca fece scalpore per il suo pacifismo. Rostand era amico del poliedrico artista omosessuale Jean Cocteau che, riformato, partecipò alla prima guerra mondiale come autista volontario di ambulanze. Partendo dal lavoro di Rostand, Ozon, cineasta che non fa certo mistero della propria omosessualità, è arrivato al melodramma del 1932 di Ernst Lubitsch Luomo che ho ucciso. E Frantz è presentato come un (libero) adattamento proprio di quest’ultimo.

Non avendo letto l’opera di Rostand, non sappiamo dire in quale misura quest’impressione sia corretta. Non c’è dubbio invece che Ozon rivoluziona il film di Lubitsch. Pur rimanendogli fedele sotto molti aspetti, ne cita diverse scene, sposta nella seconda parte il baricentro della storia, dal punto di vista di Adrien, il soldato francese che fa visita alla famiglia del soldato tedesco ucciso – Franz appunto –a quello di Anna, la di lui fidanzata, interpretata dalla notevole Paula Beer (premio Mastroianni come attrice emergente a Venezia, dove il film era in concorso).

Illusioni e ambiguità
Impostore per rimorso, Adrien si spaccia come un amico dell’ucciso, visto che entrambi sono amanti dell’arte, creando così un mondo dell’illusione poetica, salvifica e manipolatrice insieme, dove i confini sono labili, ambigui. L’ambiguità è una tematica portante nella filmografia di Ozon, in particolare quella nelle relazioni umane e sociali. Ma Adrien è anche espressione di un desiderio delicatamente omosessuale verso Franz. L’intero film offre suggestioni omoerotiche e torna in mente Cocteau ambulanziere che forse di fronte ai giovani corpi dei soldati feriti poteva provare un desiderio misto di fascino verso la morte e verso l’erotismo. In Frantz la suggestione si può cogliere quando Ozon inquadra le cicatrici di guerra nel basso ventre di Adrien, sdraiato a petto nudo dopo un bagno nel lago: vita e morte (l’erotismo della prima e la violenza della seconda) quasi si equivalgono.

Nella seconda parte la manipolazione è presa in mano da Anna. Però la sua è una manipolazione cosciente, a fin di bene, sulla quale pesa tutta la sua solitudine. Ozon legge metaforicamente la disillusione (a dir poco) di un’intera generazione mutilata da una guerra mondiale priva di senso (ancora oggi gli storici s’interrogano sulle cause razionali che l’hanno scatenata) da un punto di vista intimo e femminile.

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Adrien, che tiene segrete le sue pulsioni omosessuali, preferisce tornare all’illusione ipocrita altoborghese, lasciando Anna sola ad affrontare fino in fondo la cruda realtà. Anna è capace di perdonare l’imperdonabile e di limitare l’illusione a chi non potrebbe sopravviverle (cioè gli anziani genitori di Franz): “Bisogna vivere anche per gli altri”, dice. Infranta del tutto la bolla rassicurante, le riesce in compenso l’acquisizione importante della consapevolezza, per quanto dolorosa. Elemento fondamentale per non essere manipolati, per tentare di dominare la vita e non esserne dominati e poter costruire un futuro accettabile.

Ozon realizza un’opera che pare classica mentre invece è un film molto visivo in senso moderno: la dimensione visuale incide anche sulla colonna sonora, dai dialoghi ai suoni stessi, passando per le musiche (composte al piano da Philippe Rombi). Nitide silhouette nere di notte in un cimitero fanno cogliere l’incertezza. Una finestra, spettrale e foriera di solitudine, mentre Adrien si allontana nella notte. Ancora Adrien e Anna davanti ad una croce bianca che squarcia l’inquadratura. Queste, come anche quelle della splendida sequenza del ballo nel cortile di una locanda, sono immagini la cui accuratezza non impedisce di esprimere l’ancestralità di visioni quasi dimenticate del cinema in bianco e nero.

Ma Frantz, purtroppo, mettendo in collisione l’analisi psicologica dei comportamenti propria del cinema moderno con il melodramma di Lubitsch, non riesce a creare del tutto quella dimensione ipnotica che rimanda al cinema muto, dimensione ipnotica e inconscia che tanto piaceva ai surrealisti. Questo malgrado il grande lavoro fatto con il direttore della fotografia Pascal Marty e la scelta di un formato quasi cinemascope (altra opposizione formale, rispetto ai formati del muto e del cinema sonoro degli inizi).

Luci, ombre, colori
In ogni caso Ozon riesce a evocare qualcosa di fortemente inquieto che sembra provenire dalle fronde che avvolgono i vecchi cimiteri: si respira l’oltretomba, quello figlio di Poe o della poesia dei Rimbaud, dei Baudelaire o dei Verlaine, piuttosto che dell’horror di oggi, ridotto a cinema-giocattolo. L’oltretomba di Ozon ha il suo momento chiave in quella sequenza al cimitero di notte dove si recita Chanson d’automne, celebre poesia di Paul Verlaine usata anche da Radio Londra come messaggio codificato per lo sbarco in Normandia: splendido momento di cinema dove si respira in tutta la sua forza il freddo della morte di un’intera generazione, un freddo che vale ieri come oggi.

Sembra difficile che Ozon, rivisitando Rostand e Lubitsch in un film di ombre e nere silhouette che tanto somigliano a quelle che ci stanno progressivamente circondando per la nostra inerzia e cecità, non abbia pensato al contesto attuale, all’orrore che gruppi di terroristi fanatici ci rimandano indietro facendo uso della spettacolarità. La sua metafora, sottile ed evidente insieme, può valere per tutti i nemici. La questione è la capacità di sguardo sull’altro: ieri sulle frustrazioni dei tedeschi ridotti alla fame, oggi su quelle del mondo povero che attende da troppo tempo una politica radicalmente nuova e lungimirante da parte di governi e istituzioni finanziarie dei paesi ricchi.

Ma ci pare ugualmente estensibile al popolo tedesco odierno, non così facilmente ascrivibile alle insensate e ottuse politiche dell’austerità di Angela Merkel. Perché il film s’intitola Frantz e non Franz come suggerirebbe la grafia tedesca? Perché, come ha spiegato lo stesso Ozon, la grafia è quella francese, errata ma spesso usata. Tedesco e francese, vero e falso, sono inscindibili: il titolo spiega il film e riassume l’interrogazione che pervade l’intera opera del regista che ritrova qui una dimensione metafisica prossima a quella di Sotto la sabbia (2000).

I colori che fioriscono e appassiscono indicano l’empatia profonda degli esseri umani con le diverse situazioni

Ma questa bolla lugubre di ombre nere viene squarciata da lampi improvvisi di colore. Procedimento bellissimo e privo di ogni meccanicità: qual è il loro senso? In un’occasione, quando è usato nel (falso) ricordo dell’incontro al Louvre tra Adrien e Franz. Il colore è riservato ai ricordi presunti? Quando di fronte ad Anna e Adrien si schiude un magnifico e romantico paesaggio il colore si sprigiona come una primavera. Qualcosa sembra passare tra i due. Sembra di vedere un quadro alla Caspar Friedrich: “La mia sola ferita è Franz”, dice però Adrien. E il colore si dissolve, come un incantesimo che si volatilizza. Qui si può pensare che il colore esprima il potenziale nascosto di una situazione. In un’altra sequenza a colori, Adrien confessa di aver ucciso Franz. Ed ecco un ricordo veritiero.

I colori che fioriscono e appassiscono con velocità rapsodica, surrettiziamente, indicano l’empatia profonda degli esseri umani con le diverse situazioni: non importa se vere o false, se si tratti di realtà potenziale o realtà tragica. La coerenza con la visione di Ozon è perfetta. Se mai esiste una verità questa risiede nella parte più profonda della nostra vita interiore. Comunque, nulla sarà più come prima, dopo questa confessione. Anna, ormai sola, riattraversa la galleria rocciosa. Il colore è ormai impossibile per lei e se ancora si pensa a Friedrich, il bianco e nero, che richiama certo Bergman o Dreyer, è cupo. A casa ci sono le foto di famiglia in bianco e nero e il mare di cadaveri.

Frantz è un film sulle bolle illusorie. Quelle che creiamo per proteggerci o per meglio ingannare gli altri. Quelle dell’arte, altro tema portante del film. La differenza è che queste ultime, espressione dell’interiorità, contengono una verità inseparabile dall’illusione apparente, concetto che rovescia quanto praticato dai protagonisti. Lo capisce alla fine solo Anna, rimasta sola, ma con la schiena dritta, al contrario di Adrien, che per sempre resterà vigliacco: in guerra, poi, sul punto della redenzione, con la famiglia di Franz, infine con Anna. Lei perdona, lui ringrazia, abbandonandola nel vuoto, perfetta rappresentazione della spietatezza del vigliacco.

Tra le righe, Ozon sembra condannare Adrien anche per la mancanza di coraggio nell’affrontare la propria omosessualità. All’inizio, i due innamorati non dichiarati sono ripresi insieme nel bosco, quasi in primo piano. Il volto di Adrien è diafano e pare fatto di linee curve e stilizzate uscite dritte dai disegni di Picasso. Nella seconda parte invece il suo è un volto quasi senza forza. Stupendamente interpretato da Pierre Niney, Adrien non è insomma condannato dal regista perché omosessuale, ma in quanto personaggio non diritto. In questo film duale fino a riflettersi massicciamente nella forma-film – dualità irrisolta nell’uomo ma risolta nella donna – restano allora in testa il volto limpido e degno di Paula Beer e il fantasma dal volto candido quanto etereo di Franz, con gli occhi sbarrati già prima di morire, quando viene ucciso da Adrien. I ricordi falsi cominciano con l’arte. La realtà (che un giorno sarà un ricordo vero), espressione di speranza, si conclude con l’arte: Anna va al Louvre a vedere il quadro di Manet Le suicidé, spesso citato, a volte con discrezione, lungo il film. “Questo quadro mi dà voglia di vivere”, dice. E torna il colore.

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