17 maggio 2015 13:28

Maryland-Disorder
di Alice Winocour
100’, Un certain regard

Uno dei film più riusciti, e inquietanti, di questa selezione di Cannes non si trova nel debole (per ora) concorso ma in una sezione parallela, Un certain regard. Si tratta del secondo film della regista francese Alice Winocour (nata nel 1976), Maryland-Disorder. Una vera sorpresa che ci stupirebbe se non trovasse una distribuzione italiana.

Non è certo un film che rilancia nel cinema la ricerca artistica, che fa innovazione – ha una struttura narrativa abbastanza classica –, ma è notevolmente sottile e perfettamente calibrato nei suoi vari elementi. È un film che mette la guerra, e gli interessi sporchi, occidentali e non, fuori campo per meglio metterli in campo. Non è solo un film di sceneggiatura (ottima) ma è pienamente film di regia, dai movimenti di macchina alla direzione degli attori, senza dimenticare il montaggio visivo e soprattutto il lavoro sui suoni e la loro assenza, entrambi importantissimi in termini espressivi.

Militare tornato dall’Afghanistan, Vincent è un efficiente body guard ma soffre di una situazione personale di disordine interiore dovuta a stress post-traumatici. Si trova a proteggere la moglie francese di un uomo d’affari libanese. Non è chiaro dove inizino le sue angosce e ossessioni, i suoi fantasmi e allucinazioni correlate, ma la sua solitudine sembra direttamente proporzionata alla sua presenza fisica, alla sua massa muscolare, alla sua mole imponente che riempie lo schermo.

A interpretare la parte troviamo l’ottimo Mathias Schoenaerts, definitiva rivelazione di un attore di cui ricorderemo in particolare l’ottima interpretazione, in un ruolo analogo, in Un sapore di ruggine e ossa (2012) di Jacques Audiard. È raro, quasi unico, che un attore muscoloso – macho – sia capace di esprimere un’inquietudine e una sensibilità in questa maniera, dominando lo schermo dall’inizio alla fine. E riesce a farlo incredibilmente nell’ombra, nei suoi interstizi, nei suoi chiaroscuri, anzi soprattutto in questi (numerosi) momenti.

Un volto interiorizzato in contrasto con la sua forza fisica così appariscente che potrebbe in futuro – è il nostro augurio – lavorare sempre più su due binari: quello di film d’autore intimisti e quello di film di genere di qualità, se si troveranno registi capaci di rinverdire i fasti del cinema francese di genere, in particolare quello degli anni sessanta e settanta, dall’asciutto Jacques Deray al raffinato e malinconico Jean-Pierre Melville, per citare solo due esempi.

Un volto che compensa un corpo di segno nettamente opposto, unendo in maniera inestricabile fisicità e interiorità, è una difficile alchimia che va ad aiutare in maniera essenziale l’alchimia generale del film che la Winocour è riuscita a costruire con sapienza, facendo ben meglio rispetto a registi affermati che avevano tentato operazioni più o meno similari (per esempio, L’altra verità di Ken Loach, 2010).

Il film, chiaramente costruito seguendo il punto di vista di Vincent, è quindi impregnato della sua fisicità inquieta. Anzi, in un certo senso il punto di vista ha sede all’interno di essa.

La paranoia è in parte vera paranoia e in parte no, come vedremo in maniera sempre più accentuata man mano che la narrazione procede: Vincent non ha mai un minuto realmente rilassato, lo stato caotico della realtà fisica e dello stato della mente sembrano saldarsi in maniera organica finendo per raggiungere gli altri: dopo i tentativi di rapimento della donna e del figlioletto sventati da Vincent da uomini in nero e incappucciati, le conversazioni banali, normali in una quotidianità normale, diventano rare e forzate, quasi fuori posto.

Si pensa, qui, su registri ben differenti, alla registrazione della società americana post scandalo Watergate, ormai affondata nel sospetto e nell’inquietudine, che Francis Ford Coppola aveva restituito con acutezza in La Conversazione (del 1974, ma si può pensare anche all’ultimo lungometraggio di Sam Peckinpah, Osterman Weekend, del 1983), opera che manteneva anch’essa in maniera perfetta una delicata alchimia tra realismo e metafora.

Infatti “nel” film, e poi “dal” film verso lo spettatore, si restituisce con un’intensità, densità e compattezza notevoli – oltre a una tensione crescente a tratti difficile da sopportare – tutta la paranoia securitaria della società odierna, che non è però solo paranoia, ma sembra invece metafora della constatazione del mondo odierno, un mondo che nasconde qualcosa di oscuro e insondabile da cui il focolare domestico è risparmiato meno che mai: la protezione all’abitazione improvvisamente scompare, gli uomini in nero sorgono quasi dal nulla, la polizia non indaga i tentativi di rapimento. Nulla è chiaro.

I fatti recenti di Parigi, l’attentato alla redazione di Charlie Hebdo, nel film assurgono quasi a presagio, poiché l’opera è stata sicuramente concepita e realizzata ben prima dei tragici avvenimenti di gennaio, ed è tutt’al più ipotizzabile qualche limatura in fase di montaggio per accentuare questi aspetti, relativi a un nemico che sorge dal nulla e alla paranoia che ne è conseguita.

È dunque anche un’opera sui nostri fantasmi, tra cui le nostre colpe rimosse sulle guerre finanziate in maniera palese e occulta – l’uomo d’affari libanese amico di ministri è infatti chiaramente coinvolto in un traffico d’armi – e contro tutto questo rimane solo abbandonarsi all’intimità violata, alla purezza di un sentimento amoroso, salto che tuttavia Vincent, disadattato alla normalità della vita (vera), sembra aver paura di compiere pur avendone la possibilità. Sarà questo il solo fantasma che riuscirà ad acciuffarlo e bloccarlo. Nell’ombra, ancora una volta.

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