23 maggio 2015 12:33

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Profondamente innovatore, alfiere di una poesia delicata, anzi delicatissima, quella del tailandese Apichatpong Weerasethakul, vero antidoto, come ha scritto un grande critico, Philippe Azoury, alla follia violenta del mondo e alla grettezza di gran parte della selezione di questo concorso.

Weerasethakul, vincitore della Palma d’oro al festival di Cannes nel 2010 e di vari altri premi con i suoi film precedenti, tra cui il capolavoro Tropical malady con cui vinse il premio della giuria a Cannes nel 2004, e vincitore a Cannes nel 2002 della sezione Un certain regard con Blissfully yours, è stato una scoperta della critica francese, e in particolare dei Cahiers du cinéma e del quotidiano Libération. Si è poi imposto progressivamente, con copertine su riviste di critica come la britannica Sight and Sound. Ha praticato a lungo video installazioni, e ancora le pratica, ma il suo amore è il cinema: lo ha studiato negli Stati Uniti, dove ha fatto il documentalista presso la cineteca dell’università e dove si è innamorato del cinema sperimentale e del cadavre exquis dei surrealisti.

I suoi sono film visionari e potenti, che assemblano minimalismo e sofisticate immagini che sembrano giungere direttamente dall’inconscio, seguendo un approccio ipnotico prettamente surrealista. Ma sono anche onirici e documentaristici, fantasiosi e politici, assemblaggi di memoria storica e umana e di memoria del cinema e della cultura popolare tailandese, classici e d’avanguardia, molto dialogati e molto visivi, quieti e inquieti (talvolta ricorda un po’ David Lynch), in levitazione e terreni, dolcissimi e violenti, sensuali e concettuali (si veda Antonioni), antichi e postmoderni, schizofrenici e coerenti.

Insomma, sono film fatti di opposti. E tuttavia cercano di far delle opposizioni una ricchezza, un’armonia, cioè esattamente l’opposto di quanto fa la politica. Come se, vivendo in paesi fatti di estremi, volessero metaforizzare attraverso la loro arte una possibilità di utopia concreta, mediante una fine ibridazione di tutti gli elementi possibili, ma con la questione identitaria ben centrale. Questa è una cifra che, con questa forza, sembra appartenere nel panorama contemporaneo solo alla cinematografia orientale, quantomeno nelle sue espressioni più forti.

Questo è un film di fili e d’invisibili stratificazioni della memoria che formano un tutt’uno tra loro. Vediamone qualcuna. Nel villaggio di Khon Kaen, nella nordest della Thailandia, in una scuola abbandonata immersa tra alberi e palme (verosimilmente siamo sul ciglio della giungla) è stato installato un piccolo ospedale. Prima stratificazione. La costruzione, tutta in legno e dalle molte finestre sempre aperte, fa pensare un po’ a una grande palafitta malgrado sia ben impiantata al suolo. In questo luogo discreto, sono ricoverati militari che sembrano colpiti da una misteriosa malattia del sonno. Una donna volontaria che da piccola ha studiato in quel luogo, decide di occuparsi di Itt, bel soldato che pare abbandonato da tutti. Oltretutto, il giovane ha il letto proprio dove lei aveva il banco di scuola. Seconda stratificazione.

La donna si lega in amicizia a una veggente, Keng, che legge nei sogni. Si crea così una zona intermedia, al confine, tra veglia e sogni, per comunicare con gli uomini addormentati. La donna riceve la visita (e si spaventa molto) di dee defunte, che però hanno le sembianze, l’abbigliamento, il modo di parlare, delle donne comuni. Rivelano che dove oggic’è l’ospedale, in tempi lontani sorgeva una reggia dove il re e valorosi ma bellicosi guerrieri si combattevano. L’energia di questi soldati, secondo Keng, sarebbe aspirata dagli spiriti di questi che continuano ancor oggi a combattersi. Terza stratificazione.

Il film continua su questa linea, come quando la donna trova il diario intimo di Itt, pieno di strani scritti e bozzetti. Si susseguono tranquille quanto curiose conversazioni dove la superstizione e la capacità di ascoltare il mondo sembrano indistinguibili. Alcune di una grazia rara, poesie della quotidianità. Weerasethakul sa bene quanta medicina, quanto antidoto dell’identità c’è in questa messa in scena delle superstizioni nella semplicità del quotidiano. Non è un caso la località prescelta: Khon Kaen è la località natale del cineasta.

Il regista pare aver fatto un film etereo, disincarnato, dopo gli effetti digitali del finale di Tropical malady e le misteriose creature di Zio Boonmee: quando la donna e Keng passeggiano e parlano tra gli alberi vicino all’ospedale, Keng descrive la reggia. Nulla si vede, tutto è nelle parole. È una metafora sull’immaginazione, sul cinema come poesia del suono, contro il tutto pieno degli effetti speciali visivi. Weerasethakul è uno stregone, un guaritore, come scrive Azoury. Instillando la medicina della placidità, della quiete, dell’essenza, della trasparenza totale, cerca di guarire anche sé stesso e gli altri, e noi pure, dai nostri demoni ossessivi, dall’alienazione. Per andare all’essenziale.

In questo momento la Thailandia ne ha particolarmente bisogno, il cui tormentato processo politico non sembra avere mai fine, con il colpo di stato che nel maggio 2014 (proprio mentre volgeva al termine l’edizione scorsa di Cannes) che ha portato, tra le altre cose, alla sospensione della costituzione dopo che la corte costituzionale aveva in pratica destituito l’intero governo.

La placidità, la quiete, la riflessione, in attesa di un risveglio. In Cemetery of splendour, in concorso quest’anno nella sezione Un certain regard a Cannes, la difficoltà a svegliarsi è però davvero immane: tutti i sintomi di tutte le malattie sembrano arrivare al pettine, l’ibridazione positiva è sempre più ardua. La malattia dunque, che sia delle mente o della pelle (come spesso è questione in Weerasethakul), anche in questo film, anzi ancor più in questo film, sembra una sindrome alla rovescia, una sindrome che si fa sintomo, quello di un malessere sempre più globalizzato. Figlio di medici itineranti dei villaggi (vive nella casa dei genitori ai bordi della giungla), la malattia lo ossessiona quanto i fantasmi, forieri di memoria e quindi di consapevolezza. Fantasmi dal quale piace farsi accompagnare. E lasciarci in compagnia, come fossero amici da conversazione.

Proprio come avveniva all’inizio di Zio Boonmee, ma in quell’opera il loro apparire era espresso da poetici effetti speciali. Era cioè un film d’incarnazione cinematografica prima degli splendori di questo cimitero disincarnato. Prima di questo film dello spirito.

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