10 agosto 2015 17:47
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Il festival di Locarno celebra il grande ritorno di Andrzej Żuławski, perché Cosmos è un grande film, profondo e divertente, come le opere del grande Alain Resnais degli ultimi tempi, che ci manca sempre più. Potremmo quasi dire che il regista polacco trapiantato a Parigi torna al cinema dopo vent’anni di assenza adattando il libro omonimo di Witold Gombrowicz, uno dei massimi scrittori del novecento, non solo polacchi, realizzando un’opera sui mondi perduti, un film di segni, forse il segno inconfondibile di un mondo, quello odierno, che si va perdendo nella confusione, forse irrimidiabilmente. Un film sull’ambiguità o, più esattamente, sulla dualità del mondo, degli esseri, degli avvenimenti. Cosmos è appassionante quanto complesso, e per questa ragione facciamo slittare la recensione del notevole documentario L’infinita fabbrica del duomo.

È un film perfetto e inquietante sull’inconoscibilità del mondo, sulla sua indecifrabilità. Al tempo stesso è quasi ipnotico, ci diverte e incanta per la sua poesia. Due ragazzi, Fuchs, che viene dal mondo della moda, e Witold (come il protagonista del romanzo), che studia diritto ma è posseduto dalla letteratura (uno straordinario Jonathan Genêt, che domina su tutti), si trovano in una deliziosa (ma anche un po’ leziosa) pensioncina di montagna che pare un luogo perduto nel tempo.

Infatti siamo a Sintra (difficile capire bene il Portogallo e Lisbona senza vedere questa località in prossimità della capitale). In teoria, un luogo dove ci si dovrebbe ritrovare, come è nelle intenzioni dei due protagonisti, perché isolato dal mondo, perché luogo d’incanto. E invece confusione e nevrosi li raggiungono anche là. La padrona di casa – la sempre stupenda Sabine Azéma, attrice simbolo del Resnais degli ultimi anni – è una cuoca provetta (il marito la chiama pasticcina), ma non ha nulla della casalinga. È fortemente nevrotica e ogni tanto, come fosse sovraccarica di elettricità isterica, va in tilt bloccandosi e rimanendo completamente immobile. Il marito, architetto, parla sempre per divertenti giochi di parole, che sembrano usciti da certo fumetto francofono, dal belga Tintin al francese Asterix.

I personaggi, dietro il loro humour e la loro educata melassa, si rivelano quasi tutti fuori di testa e contemporaneamente commoventi

Ma solo immaginare questa maniera di parlare in un contesto realistico fa venire i brividi. I personaggi, dietro il loro humour e la loro educata melassa, si rivelano quasi tutti fuori di testa e contemporaneamente commoventi: la dualità di cui dicevamo prima. Il tutto inserito in un contesto teatrale. Come nei film di Resnais degli ultimi anni e come in tanti fumetti. Mezzo d’espressione, quello del fumetto, che Resnais amava e di cui fu ottimo critico ante litteram, molto più prossimo al teatro (in particolare quello della pantomima) che al cinema, intrinsecamente portato al realismo: uno degli equivoci, ma non l’unico, che portano a tanti sciagurati adattamenti cinematografici.

Witold cita in maniera apparentemente confusa frasi letterarie a profusione. Si comincia con Dante: “Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura ché la dritta via era smarrita… “. Tutto è enunciato. Siamo in un percorso – un sentiero piccolo e insieme un viaggio grande – dal sapore iniziatico. O in un gioco? In una caccia al tesoro? Nel vorticoso susseguirsi di frasi letterarie che lungo il film creano una serie di echi dalla complessa interpretazione, strani avvenimenti del tutto visuali si verificano nelle prossimità della casa: uccelli e pezzi di legno impiccati, poi anche il gatto di casa. Infine viene ritrovato impiccato il fidanzato della giovane proprietaria (interpretato da Andy Gillet, già visto in Gli amori di Astrea e Céladon, film testamento del 2006 di Eric Rohmer).

E poi strani segni sul soffitto e nel giardino. Il montaggio ne sottolinea il carattere iterativo, tipico del fumetto, e di segno iniziatico. Anzi, massonico. Il gatto pare più importante di altri animali nella simbologia massonica. L’ossessione per i simboli è caratteristico della massoneria. Ma qui si è seri o faceti ? A un certo punto uno dei giovani ragazzi di questo racconto corale è vestito come il Tintin di Hergé. Dante alla pari con Tintin ? Impossibile dirlo. Sempre per la dualità che si diceva.

Più avanti viene ritrovato un volume della serie a fumetti Blake e Mortimer di Edgar P. Jacobs, ex assistente di Hergé, serie ancor oggi fondamentale nell’enorme industria del libro a fumetti francofona. Si tratta di uno dei due tomi di La grande piramide. La cerca del tesoro perduto, appunto. Ma forse anche un segno di come nella massoneria agli approcci filosofici dell’illuminismo siano stati integrati simbologie e riti molto antichi, per esempio egizi. Tutto è duale e ambiguo.

“Nella pensione c’è una bocca torva, quella della cameriera, e una bocca perfetta, quella della giovane proprietaria”, per usare le parole della nota di produzione. E Witold è certo innamorato, sedotto, dalla giovane donna, ma ha una relazione ambigua con Fuchs, dichiaratamente gay: in una delle scene finali si congedano e Fuchs dà un intenso bacio sulla bocca a Witold. La scena è montata due volte: la seconda senza bacio.

Cosmos è una notevole metafora atemporale sulla confusione dei segni che incrociamo ‘lungo la selva oscura’ di questo nostro mondo

Perché tutta questa dualità? Volendo rimanere nella simbologia massonica, forse perché secondo alcuni la massoneria ritiene che il mondo sia stato creato da un’entità demoniaca ma duale? E ribellarsi a essa vuol dire mettere un ordine razionale e umano alle cose? Oppure quest’entità è solo una metafora? Oppure la massoneria è invece intrinsecamente demoniaca, come ritengono alcuni (in genere cattolici fondamentalisti)?

Sia come sia, lo spettatore sceglierà il percorso iniziatico a questo film (e forse anche a Gombrowicz e al cinema dello stesso Żuławski) che preferisce. Cosmos è una notevole metafora atemporale sulla confusione dei segni che incrociamo “lungo la selva oscura” di questo nostro mondo, e insieme una metafora della contemporaneità, sempre più vacua, incomprensibile e terrificante (nel film, l’unico legame con l’oggi sono i segni o i segnali che giungono ogni tanto dalla muta televisione: dalle sfilate di moda ai terroristi del gruppo Stato islamico).

Certo, la sequenza finale in cui la porta (del Tempio?) si chiude e sui di essa splende un gigantesco occhio racchiuso in un triangolo avvolto da raggi (più o meno quello raffigurato sulla banconota da un dollaro su cui tanti s’interrogano perché ritenuto un simbolo esoterico sulla fondazione massonica degli Stati Uniti) sembra un sigillo inequivocabile. Ma i titoli di coda, dove appaiono tutti i trucchi di scena e gli animali finti impiccati, sembrano altrettanti segni inequivocabili che forse tutto è un gioco. O paccottiglia. La dualità, sempre.

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