26 febbraio 2015 18:12

In inglese si dice to wing it. Improvvisare. Sono nata e cresciuta negli Stati Uniti, vivo in Italia da diversi anni, e ancora mi meraviglio della capacità italiana di fare grandi cose all’ultimo momento. L’improvvisazione riesce bene agli italiani, ai miei compatrioti statunitensi molto meno. Siamo contrari per principio al winging it. Allo stesso tempo, ci piace un sacco vedere un’improvvisazione ben riuscita. Esempio: improvvisare in una lingua straniera.

Nonostante qualche clip imbarazzante su YouTube in cui Matteo Renzi naufraga nell’ostico mare dell’inglese, personalmente lo vedo come un naufragare dolce, non tragico. La mia impressione, minoritaria lo so, (e non voglio con questo dare alcun giudizio politico sul governo) è che il presidente del consiglio mastica un inglese povero, ma abbastanza efficace, in cui la stessa buona volontà è comunicativa, e stuzzica la partecipazione di chi ascolta.

Ricordate Roberto Benigni in Daunbailò? Ecco. Questo inglese “maccheronico-simpatico” (altri lo hanno definito “goliardico” o “ruffiano”) è una dote tutta italiana, ma non tutti gli italiani la possiedono. In un’intervista per la tv statunitense, ho sentito l’ex premier Enrico Letta parlare un inglese davvero eccellente, eppure suonava burocratico, un po’ noioso. Idem Mario Monti. Stendiamo un velo sul grande comunicatore Berlusconi: lui sì che è una parodia di Totò.

L’improvvisazione e la buona volontà possono bastare per un breve discorso a braccio, ma nella scrittura l’improvvisazione linguistica può avere effetti devastanti. È qui che la padronanza della lingua conta, e sottovalutarla produce un risultato che possiamo chiamare maccheronico-ridicolo. E questo perché troppo spesso in Italia si cerca di risparmiare sulla traduzione, pagando il lavoro al ribasso, o assumendo la fidanzata del fratello che una volta ha studiato due mesi in Inghilterra.

Forse avrete sentito dire che l’Expo 2015 è molto carente sul piano della comunicazione nelle lingue straniere. Pare infatti che abbiano tenuto una conferenza un paio di settimane fa senza provvedere alla traduzione simultanea e senza offrire alcun documento tradotto. I partecipanti dei vari paesi anglofoni hanno protestato. E questo è grave. Ancor peggio sarebbe un intero sito web visto da milioni di persone scritto in maccheronico-ridicolo. Quello dell’Expo è stato accusato di essere addirittura tradotto automaticamente, un prodotto di Google Translate. Poi è venuto fuori che chi criticava il sito aveva sbagliato indirizzo ed era capitato in un sito non ufficiale.

Sono andata a vedere il sito ufficiale, e devo dire che le pagine in inglese non sono terribili, anzi. Comunicano le grande linee del progetto Expo e informano su eventi e iniziative. Come sempre i problemi vengono fuori non dalle singole parole, ma da concetti e modi di pensare non condivisi tra lingue e culture. Che cos’è “Feeding knowledge and best practices”, scritto in inglese non solo sulle pagine inglesi, ma anche su quelle italiane e francesi? Io che sono madrelingua dovrei saperlo, ma mentre “best practices” mi dice qualcosa (è un termine legale-commerciale-burocratico e sta per “prassi accettata”), “feeding knowledge” è un mistero.

Vado a indagare cliccando su quel progetto. Siamo al cuore scientifico e culturale di questa esposizione: i rapporti tra il nutrimento, la sicurezza del cibo, le abitudini alimentari, l’agricoltura sostenibile, la salute umana e quella del pianeta. In questo campo, a mio avviso, l’Italia ha contributi importanti da offrire, studi scientifici e conoscenze internazionali da comunicare. Ma quelle respingenti parole, “feeding knowledge”, sono un dolente esempio di maccheronico di stato: un compromesso che non piace a nessuno e non dice nulla. È l’inglese per decreto, quello che si usa quando non si riesce ad accontentare tutti o a trovare di meglio.

Allora, forza Expo! Siete sulla buona strada. Ma “feeding knowledge” no, per carità. Allertate i traduttori e cercate qualcosa di più preciso, intelligente e invitante.

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