06 marzo 2020 17:47

Non c’è niente che due vecchi amici non possano risolvere tra loro. Dopo un incontro durato quasi sei ore al Cremlino, la sera del 5 marzo il presidente russo Vladimir Putin e il suo omologo turco Recep Tayyip Erdoğan hanno annunciato di aver raggiunto un accordo per mettere fine ai combattimenti nella provincia siriana di Idlib. Sembra così scongiurata la possibilità di un conflitto armato tra i due paesi, che nelle ultime due settimane era stata pericolosamente vicina.

Tutto era cominciato a febbraio, quando l’esercito siriano, appoggiato dall’aviazione russa, aveva lanciato un’offensiva per riconquistare Idlib, l’ultimo territorio rimasto in mano all’opposizione dopo nove anni di guerra civile. In teoria la zona era coperta dal cessate il fuoco stabilito con l’accordo di Soči tra Putin ed Erdoğan nel 2018, ma la Russia accusava la Turchia di non aver disarmato i gruppi jihadisti attivi nella regione, come previsto dal patto, e il presidente siriano Bashar al Assad era ansioso di riprendere il controllo delle autostrade M4 e M5, che collegano la capitale Damasco e la costa mediterranea ad Aleppo. L’offensiva aveva provocato la fuga di quasi un milione di persone verso il confine turco e causato una gravissima crisi umanitaria.

Erdoğan aveva reagito rafforzando la presenza militare turca a Idlib, già prevista dall’accordo di Soči, ma questo non era bastato a scoraggiare Assad. Le forze turche avevano allora cominciato ad attaccare direttamente quelle siriane, e poi addirittura a prendere di mira gli aerei russi. Il 27 febbraio un bombardamento siriano o russo aveva colpito una postazione turca, uccidendo almeno 34 soldati. A quel punto Ankara aveva lanciato una massiccia rappresaglia, abbattendo tre aerei siriani e bombardando pesantemente le forze di Assad. La Russia non aveva reagito, permettendo ai droni turchi di agire quasi indisturbati nello spazio aereo siriano.

La situazione era resa più pericolosa dal fatto che entrambi i leader si giocavano la faccia. Putin non poteva tollerare che la Turchia infliggesse una sconfitta militare ad Assad, mettendo in discussione il ruolo di potenza regionale che Mosca ha cercato faticosamente di costruirsi con l’intervento in favore di Damasco nel 2015. Complessivamente la Russia ha una potenza militare molto maggiore rispetto alla Turchia, ma non sarebbe stata in grado di mobilitare rapidamente abbastanza forze in Siria per rispondere all’offensiva turca. Erdoğan, una volta fallito il tentativo iniziale di intimidire Assad, non poteva lasciare impunita l’uccisione dei soldati turchi. L’esercito gli è sempre più ostile per le continue purghe di militari accusati di aver partecipato al golpe del 2016 e non avrebbe tollerato un’umiliazione simile.

L’accordo del Cremlino contiene importanti concessioni da entrambe le parti

Alla fine, però, entrambi hanno dovuto mettere da parte l’orgoglio. Distruggere il complicato rapporto costruito tra Mosca e Ankara negli ultimi anni avrebbe avuto costi insostenibili per entrambi. La Russia avrebbe perso contratti militari miliardari e soprattutto la possibilità di controllare l’accesso al mercato europeo del gas naturale, vera stella polare della sua politica regionale, attraverso il gasdotto Turkish stream. La Turchia avrebbe dovuto tornare all’ovile della Nato, che durante la crisi ha rifiutato la sua richiesta di istituire una no-fly zone su Idlib, e rinunciare alla politica estera indipendente che ha portato avanti negli ultimi anni grazie alla sponda di Mosca. La reimposizione delle sanzioni russe adottate dopo l’abbattimento di un aereo russo in Siria nel 2015, inoltre, avrebbe dato il colpo di grazia a un’economia già traballante. Il sostanziale fallimento del tentativo di ricattare l’Unione europea scaricando migliaia di migranti al confine con la Grecia ha dimostrato a Erdoğan che in Europa la sua mano è molto più debole rispetto a qualche anno fa.

L’accordo del Cremlino contiene importanti concessioni da entrambe le parti. La Russia dovrà far accettare ad Assad di rinunciare a riprendere il controllo di tutta la Siria e di accontentarsi della riapertura delle autostrade per Aleppo. Il successo della controffensiva turca ha dimostrato che senza il sostegno della Russia né l’esercito siriano né le milizie iraniane sono in grado di tenere testa alla Turchia, e questo potrebbe rafforzare l’influenza russa a Damasco. Erdoğan invece deve rimangiarsi la promessa di ricacciare Assad alle linee dell’armistizio di Soči e gestire una situazione umanitaria che si fa sempre più difficile: gli oltre tre milioni di profughi dovranno stringersi in un territorio ancora più piccolo.

Con il suo intervento militare la Turchia si è di fatto assunta la responsabilità della sicurezza nella provincia, che avrà lo stesso status delle altre aree occupate dall’esercito turco nel nord della Siria. Ma mentre in queste ultime Ankara può contare sul sostegno di milizie siriane relativamente affidabili, a Idlib la forza dominante è il gruppo jihadista Hayat tahrir al Sham, legato ad Al Qaeda, con cui i rapporti saranno molto più difficili.

Nonostante tutte le incertezze dell’accordo, però, sembra improbabile una ripresa delle ostilità ai livelli delle ultime settimane, almeno a breve termine. Entrambe le parti hanno avuto modo di valutare a fondo le conseguenze disastrose di un conflitto in piena regola. Ma nessuno dei nodi fondamentali del conflitto siriano è stato risolto, e non ci vorrà molto perché la tensione torni a salire. Putin ed Erdoğan avranno ancora molto di cui parlare.

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