27 maggio 2011 18:17

Questi sono il delitto e il castigo: Israele ha detto un no arrogante agli Stati Uniti, e gli Stati Uniti non intendono perdonare né dimenticare. Dobbiamo essere grati a Barack Obama. Nel suo discorso ha mostrato al mondo come stanno davvero le cose: il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu non vuole la pace. Dobbiamo essere grati anche al premier israeliano: ha infatti finalmente detto la verità, ha messo fine agli inganni contenuti nel discorso che aveva pronunciato all’università Bar-Ilan, e ha smentito le sue promesse sul “saldo impegno a favore della soluzione a due stati”. Netanyahu non vuole lo stato palestinese, punto e basta.

Nel mondo nuovo che ispira la visione di Obama non c’è posto per un’occupazione militare senza fine, per scene come l’operazione Piombo fuso, per i colpi d’arma da fuoco sparati contro i manifestanti e per i checkpoint. Non c’è accordo senza uno stato palestinese e non c’è stato palestinese senza i confini del 1967. Il secco no di Neta-nyahu, che è il secco no di Israele, risuonerà fino in capo al mondo. Ma come se non bastasse, è stata smascherata anche un’altra menzogna: Israele non è un vero amico degli Stati Uniti. Non è così che si comporta un amico, e soprattutto non lo fa un amico che dipende tanto dall’altro. Alla conferenza dell’American Israel Public Affairs Committe (Aipac), dove tutti inneggiavano alla grande amicizia tra i due paesi e ai loro valori condivisi, bisognava capire che quest’amicizia è paurosamente unilaterale: è l’amicizia degli Stati Uniti verso Israele.

Ora quel no provocherà duri provvedimenti da parte di Washington. La realtà ora è questa: per eventuali chiarimenti e lagnanze, rivolgersi a Netanyahu. A questo punto gli Stati Uniti hanno davanti tre possibilità. Una è prendere nuovamente le distanze dal problema. Ma sarebbe un disastro: dal punto di vista di Washington significherebbe la fine di tutti i suoi tentativi strategici di conquistarsi le simpatie dei cittadini dei paesi arabi. Israele – che rischia sempre più con il passare del tempo e non può permettersi di perdere i grandi insediamenti vicini ai confini, come Ariel – dovrebbe essere il primo a sperare che gli Stati Uniti non scelgano questa strada.

La seconda possibilità che ha Barack Obama è parlare agli israeliani scavalcando il loro premier. Ma non può funzionare: anche se Obama fa quel che fece il presidente egiziano Anwar al Sadat nel 1977 (venire a parlare di persona alla Knesset, spiegando agli israeliani che il loro premier pregiudica il loro futuro e compromette i rapporti con il loro unico alleato), anche in quel caso, dicevo, gli israeliani non si sveglieranno dal letargo in cui li mantiene, cullandoli, la vita facile che fanno. In Israele non c’è maggioranza né di destra né di sinistra: la maggioranza è in uno stato di spaventosa indifferenza.

C’è poi una terza via, che chiaramente sarebbe più difficile per Israele che per chiunque altro ed è quella delle pressioni internazionali. Il primo passo dovrebbe essere che l’Assemblea generale delle Nazioni Unite votasse a favore della nascita di uno stato palestinese. Poi dovrebbero venire l’isolamento (e non sarà piacevole ritrovarsi da soli in compagnia della Micronesia), i tagli agli aiuti e l’abbandono. Certo, questa strada susciterebbe il panico a Gerusalemme e altrettanto a Tel Aviv, ma è l’unico modo per dimostrare vera amicizia a Israele. E a tutti gli effetti è stato proprio Netanyahu a dire che la via è questa. È lui che non lascia alternative.

Obama, che con un po’ di fortuna rimarrà in carica per altri sei anni, è tornato a mostrarsi deciso, almeno a parole: ora dovrà sostenere la prova dei fatti. I veri patrioti israeliani, quelli che vedono da che parte sta andando il loro paese e sanno che il cambiamento non verrà più dall’interno, devono sperare – per quanto vergognoso possa sembrare – nelle pressioni dall’esterno. Non c’è altra speranza. Sì, se il presidente degli Stati Uniti è un amico vero, questo è il momento di esercitare pressioni.

Rivolgere un appello al presidente degli Stati Uniti affinché faccia pressioni su Israele è piuttosto imbarazzante, se a farlo è un israeliano. Ma è Netanyahu che ci ha spinti a questo punto. Un primo ministro che avanza richieste assurde, come l’esigenza ridicola di schierare soldati sul Giordano, che dice solo cosa non vuole e non cosa vuole, che diffonde tante false paure ma nessuna fiducia, che dice no agli Stati Uniti e no a una buona occasione fa più danni alla sicurezza di Israele di tutti quelli che propongono confini angusti e di tutti “i traditori della sinistra” messi insieme. Netanyahu ha invitato l’America a punire Israele. A quanto pare questo è l’unico modo di scuotere gli israeliani dall’incubo che si sta avverando davanti ai loro occhi.

Solo se sentiranno davvero scricchiolare i legami politici, economici e militari con gli Stati Uniti, gli israeliani capiranno che devono abbandonare gli insediamenti.

*Traduzione di Bruna Tortorella.

Internazionale, numero 899, 27 maggio 2011*

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