19 marzo 2012 18:01

C i risiamo: un omicidio mirato, la ritorsione e infine la ritorsione contro la ritorsione. Ci risiamo: la reazione automatica, la retorica guerrafondaia e la cecità. L’esercito israeliano compie un omicidio mirato e i gruppi palestinesi si vendicano (e vengono accusati di volere la guerra e di alimentare il terrorismo). Non c’è da stupirsi se il parlamentare israeliano Danny Danon, del partito Likud, si è affrettato a chiedere di colpire “tutti gli abitanti di Gaza che possiedono un’arma” per difendere “milioni di persone minacciate dal fuoco nemico”.

Questi “milioni di persone”, se non fosse chiaro, sono i residenti del sud di Israele. Solo loro, a quanto pare, sono sotto il fuoco nemico. Ma il 10 marzo dall’altra parte del confine con Gaza erano già morti quindici palestinesi. Sul versante israeliano, invece, c’erano otto feriti e il sistema antimissile Iron dome aveva intercettato con successo venticinque razzi. Ogni volta che scoppiano queste violenze cicliche mi vengono in mente due domande. Chi ha cominciato? Chi è il più forte? Sembra un litigio tra bambini delle elementari. La risposta alla prima domanda è sempre incerta, mentre l’altra è evidente e incontestabile.

Domande infantili

Chi ha cominciato? Questa volta sono stati l’esercito israeliano e i servizi di sicurezza dello Shin Bet. L’impressione è che portino a termine i loro omicidi mirati quando ci riescono, e non quando è strettamente necessario. Già in passato si è discusso della legittimità degli omicidi mirati. Un tempo si diceva che gli obiettivi dovevano essere “bombe a orologeria” pronte a realizzare un attacco. Oggi quel criterio così vago non è più valido. Nel 2006 la corte suprema israeliana proibì gli omicidi mirati se il loro obiettivo era la “dissuasione” o la “punizione”. Zuhair al Qaissi, segretario generale dei Comitati di resistenza popolare di Gaza, è stato l’ultima vittima di un attacco mirato.

L’esercito sostiene che Al Qaissi fosse il responsabile degli attacchi terroristici commessi al confine con l’Egitto nell’agosto del 2011, quindi la sua uccisione è stata un atto di “dissuasione o punizione”. Tuttavia, per proteggersi, i militari israeliani hanno aggiunto che Al Qaissi “stava guidando i piani per un attacco terroristico in Israele, che era ormai allo stadio finale di preparazione”. È bastata questa dichiarazione estremamente contorta del portavoce delle forze armate per fare in modo che la popolazione accettasse l’accaduto. Solo lo Shin Bet sa cosa Al Qaissi stava preparando. I cittadini devono prendere atto della sua morte senza farsi inutili domande.

La questione della legalità dell’omicidio mirato non è più al centro del dibattito politico, e ormai non lo è neppure quella dell’efficacia. Gli omicidi mirati sono davvero serviti a Israele? In realtà non sappiamo se abbiamo ottenuto qualcos’altro oltre al ferimento dei nostri connazionali e alla paura. Né sappiamo se queste uccisioni hanno davvero scongiurato un attacco terroristico.

Quanto alla domanda su chi sia più forte tra israeliani e palestinesi è ridicola e superflua. Israele ha l’esercito meglio equipaggiato del mondo, mentre dall’altra parte c’è un’armata disordinata, dotata solo di lanciarazzi rudimentali. Eppure sembra che ogni volta ci sia bisogno di dimostrare lo squilibrio delle forze in campo. Le cifre sono davanti agli occhi di tutti. Dopo un solo giorno di attacchi, il bilancio delle vittime era di quindici morti palestinesi e zero israeliani. Nell’operazione Piombo fuso, condotta a Gaza tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009, la proporzione era stata di cento palestinesi uccisi ogni israeliano morto.

Nel manicomio

In Israele la morte di decine di palestinesi sembra un fatto accettabile. Suscita appena uno sbadiglio, nella speranza che torni la calma dopo un paio di giorni. Un mediatore senza nome si occuperà dei negoziati e le armi saranno riposte nei magazzini. Fino a quando le domande infantili su chi ha cominciato e chi è più forte torneranno nuovamente d’attualità. Israele non eviterà di portare a termine nuovi omicidi mirati e i palestinesi non eviteranno di vendicarsi, entrambe le parti accecate dalla loro stupidità. Perché così funziona la routine in quest’enorme manicomio. Per chi ci vive non c’è niente di strano: l’Iran viene paragonato ad Auschwitz e in un riflesso automatico gli israeliani portano a termine il loro omicidio mirato a Gaza, interrompendo un periodo di tranquillità di cui avevano beneficiato tutti.

L’astro nascente dell’opposizione israeliana, Shaul Mofaz, del partito Kadima, l’alternativa vincente all’attuale governo, ha fatto sapere di essere favorevole agli omicidi mirati. Come del resto il ministro dell’educazione Gideon Sa’ar. Il premier Benjamin Neta­nyahu ha già preso contatti con i sindaci del sud di Israele per manifestargli sostegno. Anche questo fa parte del rituale. I residenti del sud si nascondono nei rifugi mentre il resto del paese scrolla le spalle e ripete che “le cose stanno così”, “non ci si può fare niente” e “ben fatto, soldati!”. Per poi schiacciare un pisolino pomeridiano nel meraviglioso clima primaverile.

*Traduzione di Andrea Sparacino.

Internazionale, numero 940, 16 marzo 2012*

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