10 dicembre 2012 14:45

Mac DeMarco. (Captured Tracks)

Le canzoni di Mac DeMarco hanno un fascino randagio. Sembrano uscite da uno scantinato impolverato degli anni settanta. Con quelle chitarre quasi stonate, la batteria essenziale e i riverberi carichi di nostalgia, questa canadese di 22 anni è riuscito a creare una cifra stilistica originale e intrigante. Mac DeMarco è anche un artista prolifico. Dopo aver militato nel duo pop Makeout Videotape, nell’aprile 2012 ha pubblicato l’ep Rock and roll night club. A ottobre, a pochi mesi di distanza, è uscito il suo disco d’esordio da solista, intitolato Two. Un album che ha raccolto ottime recensioni. Mac ha suonato per la prima volta in Italia il 4 dicembre scorso, a Milano. Ma come ci ha raccontato al telefono, mentre era in viaggio sul tour bus, dovrebbe tornare nel 2013 nel nostro paese per qualche altra data. Sinceramente lo spero, sono curioso di vederlo dal vivo. Perché nonostante quell’aria da vagabondo un po’ naïf, è un cantautore molto dotato.

Come descriveresti il tuo album d’esordio Two?

Il mio primo ep Rock and roll nightclub era un esperimento, l’ho registrato tutto in una settimana giocando molto con i suoni. Two invece è stato un ritorno alle origini, al modo in cui scrivevo prima. Sono pezzi semplici e sinceri. Molti mi chiedono di spiegare i testi, ma in realtà non parlano di niente in particolare, sono solo cose che mi passano per la testa mentre suono la mia chitarra.

I tuoi dischi hanno uno stile originale. Scarno, ma coinvolgente. Da dove nasce?

Mi piace comporre e registrare il più possibile in solitudine. Poi aggiungo le parti con la band, ma solo in un secondo momento. E se posso tengo la prima versione, è sempre la migliore. Quando mi metto a rifare un pezzo più di tre o quattro volte, vuol dire che qualcosa non va.

In tutto il disco la chitarra ha un suono piuttosto spiazzante. Che strumento usi?

Sinceramente? Non so da dove viene, non ha una marca. Me l’hanno regalata a 16 anni e costava trenta dollari. E non ho mai pensato di cambiarla. Mi piace il suo suono. E poi ho un pedale per il riverbero che penso nessun musicista serio avrebbe il coraggio di usare.

Nel disco c’è una canzone intitolata Ode to Viceroy, che racconta una storia molto particolare.

Un giorno ero in tour a New York e ho comprato delle sigarette economiche chiamate Sheriff in un duty free. Le ho fumate e non mi piacevano per niente. Così sono tornato di corsa alle mie Viceroy. Il pezzo parla del mio amore per questa marca di sigarette, di quanto mi mancavano. È come quando tradisci una ragazza e ti presenti sotto alla sua finestra per chiederle perdono.

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My kind of woman invece è una canzone d’amore per una ragazza in carne e ossa?

Sì, ma non una in particolare. Non parla della mia attuale fidanzata, perché l’ho scritta prima di mettermi insieme a lei. Come tanti altri miei pezzi, parla solo delle sensazioni di quel momento.

Ti consideri un cantautore?

Non proprio. Certo, compongo brani che hanno a che fare più o meno con la mia vita. Ma non mi prendo sul serio. Non penso di essere il nuovo Bob Dylan o una specie di Leonard Cohen. Basta vedere che cappelli indosso, per non prendermi troppo alla lettera.

Quali suono i tuoi riferimenti musicali?

Tanti. John Lennon, per esempio. Ma anche Jonathan Richman. E poi vado matto per Shuggie Otis. Il mio sogno è fare un duetto con lui. Adoro la sua musica, ma non sarei mai in grado di scrivere delle cose simili. Sono un ragazzo bianco, putroppo.

Due album in un anno: sei molto prolifico. Hai qualcos’altro in cantiere?

Ho scritto diverse canzoni in tour. Penso che farò uscire un nuovo ep in primavera, e forse un nuovo album in estate. Sicuramente saranno dischi più simili a Two che a Rock and roll night club. Ma ancora non ho un progetto preciso.

Ti piace la vita del musicista?

Molto. In fondo sono un hobo, un randagio. Andare in giro, fare concerti, bere e fumare è una cosa che fa per me. Insomma, riesco a guadagnarmi da vivere senza nemmeno lavorare. Direi che non c’è male.

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