05 maggio 2016 11:10

Come sosteneva Karl Marx, gli esseri umani fanno la propria storia, ma in circostanze che non sono loro a scegliere. L’apparato burocratico, i deputati e i senatori, un esercito di lobbisti, il mondo politico, i poteri economici, i mezzi d’informazione, trecento milioni di cittadini, i leader di tutto il mondo, e tutto questo ventiquattr’ore al giorno, sette giorni su sette, per otto anni di fila. La difficoltà di guidare una macchina enorme e straordinariamente complessa come la Casa Bianca è solo in parte riassunta dalla crescita del numero di assistenti dei presidenti nel corso del tempo: a Roosevelt ne bastavano sei, a Truman 12, Obama ne ha più di cento.

Come lui stesso ha confessato più di una volta, è impossibile riuscire a tenere tutto sotto controllo, ci si può solo limitare a definire la giusta traiettoria. Ma non ci si può neanche nascondere dietro al fatto che cambiare le cose è complicato. E, da questo punto di vista, la presidenza di Obama è stata un’occasione persa.

Arrivato sull’onda di grandi speranze, la carica dirompente di Obama, soprattutto simbolica (il primo presidente nero alla guida degli Stati Uniti), è andata via via attenuandosi nel corso del tempo, fino a restituirci un presidente moderato e centrista, sobrio e onesto, che sarà ricordato per aver contribuito a governare senza troppi scossoni né cambiamenti profondi un mondo che invece, di cambiamenti profondi, ne avrebbe bisogno.

Non è vero che Obama non ha avuto abbastanza coraggio o che è stato un presidente pavido: ha scelto deliberatamente di evitare il conflitto politico, di non schierarsi, di non dare battaglia, di non compiere gesti forti, anche solo simbolici, che pure i limiti della sua azione e del suo mandato gli avrebbero consentito.

L’unica consolazione è un paradosso, e David Bromwich su Harper’s trova le parole giuste per descriverlo. Chi ha votato per Obama ed è rimasto deluso pensa che finora questo presidente sia stato giudicato in modo meno severo di quanto avrebbe meritato. “A trattenerci, però, è un’intuizione, quasi un monito: che il suo predecessore era peggio, e che anche il suo successore, purtroppo, lo sarà”.

Questa rubrica è stata pubblicata il 6 maggio 2016 a pagina 7 di Internazionale. Compra questo numero| Abbonati

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