12 ottobre 2016 13:29

Chavela Vargas a 83 anni calcolava di aver bevuto più di 45 mila litri di tequila. Lo raccontava come il dato meno interessante della sua vita. Vale la pena riassumerla un poco, per chi avesse voglia di entrare in una di quelle storie che gli americani definiscono larger than life.

Mi faccio aiutare da Dimartino e Fabrizio Cammarata, che hanno tradotto e cantato le canzoni di Chavela Vargas in un album, e raccontato la sua vita in un libro. Il titolo è Un mondo raro.

Disco e romanzo sono ottime bussole per orientarsi nel mondo di una cantante che è stata definita l’anima del Messico, è stata paragonata alle più grandi voci della storia della musica, da Billie Holiday a Édith Piaf, e che però in Italia è sconosciuta ai più.

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Isabel Vargas Lizano nacque a San Joaquín de Flores, in Costa Rica, il 17 aprile 1919. “Sono nata così”, ha raccontato a El País. “Da quando ho aperto gli occhi sul mondo, non ho mai dormito con un uomo. Mai. Figurati la purezza, non ho niente di cui vergognarmi, i miei dei mi hanno fatta così”. Siccome sta parlando dell’essere lesbica all’inizio del novecento in un paese cattolico e tradizionalista, questo significa che passa l’adolescenza a schivare chi la considera stramba o malata o puttana, e spesso le tre cose insieme. “Non è stata solo un’icona musicale”, dice Dimartino, “fugge dal Costa Rica per la sua omosessualità, per viverla e difenderla”.

A diciassette anni trova rifugio a Città del Messico, che aveva trovato rifugio in una rivoluzione.

L’Europa si abbandona tra le braccia dei dittatori, in Messico viene destituito il generale Porfirio Díaz. Vargas canta agli angoli delle strade.

Registi come Sergej Ėjzenštejn e Luis Buñuel arrivano nel paese, attirati dalla rivoluzione di Pancho Villa ed Emiliano Zapata. Vargas va in giro con pantaloni, poncho e pistola.

Lev Trockij è ospitato da Frida Kahlo e Diego Rivera, che fanno alzare il muro di casa a Coyoacán per proteggerlo dai sicari di Stalin. Vargas incrocia alcuni degli scrittori messicani più importanti nelle pulquerie, stravolge i loro testi e gli ascoltatori, comincia a costruire il suo mito.

Circolano storielle che coinvolgono alcuni dei personaggi citati finora. Vargas è l’amante di Frida Kahlo passa le notti con Lev Trockij, fa impazzire Ava Gadner. Va in giro con un’Alfa Romeo bianca che le ha regalato il presidente messicano Adolfo López Mateos. Canta alle feste di Grace Kelly ed Elisabeth Taylor, e ruba i mariti – o le mogli, a seconda di chi racconta.

“Negli anni sessanta me la ricordo al Cueva de Amparo Montes, un club frequentato da artisti underground nel centro di Città del Messico. Si vestiva di pelle nera, e si portava in giro su una motocicletta una bionda”, racconta il critico Tomás Ybarra-Frausto.

Canta di donne lasciate e uomini rotti e vite sfinite, di galere e letti, di amori svenevoli, di bar tequila e sbronze. Dimartino e Cammarata hanno tradotto queste storie, cercando di non rompere un equilibrio delicatissimo. “È avvenuto in modo naturale”, spiega Dimartino, “abbiamo cercato di non rompere l’equilibrio che le parole avevano già nella loro lingua madre”. Provo a spiegare perché il rischio era forte con un due esempi e un esperimento.

Primo esempio. La sua interpretazione di Somos, un classico di Mario Clavell, apre Carne tremula di Pedro Almodóvar, le parole sono queste:

Somos un sueño imposible que busca la noche
para olvidarse del mundo, del tiempo y de todo.
Somos de nuestra quimera, doliente y querida,
dos hojas que el viento junto en el otoño-o-o…

Sogni impossibili in cerca della notte, foglie che si uniscono in autunno, eccetera.

Secondo esempio. Macorina trasforma l’amore per la libertà di una donna cubana in un inno lesbico, e per farlo usa parole che richiamano vestiti che sbocciano, canne da zucchero che si arrendono, aurore violente, eccetera.

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Con Las simples cosas, scritta dagli argentini Armando Tejada Gómez e Julio Cesar Isella, si può fare l’esperimento che rende tutto più evidente. Le parole suonano così:

Uno se despide insensiblemente
de pequeñas cosas.
Lo mismo que un árbol
que en tiempo de otoño se queda sin hojas.
Al fin la tristeza es la muerte lenta de las simples cosas,
esas cosas simples que quedan doliendo en el corazón.

Poi arriva la voce:

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Per dirla in maniera semplice: ci vuole una gran faccia tosta a usare così tanto melodramma (alberi senza foglie, aurore violente, piccole cose che dolgono nel cuore) senza sembrare patetiche. Il confine è sottile, i testi sembrano sempre sul punto di scivolare nel ridicolo. Ci vuole una gran faccia tosta, ma sopratutto una gran voce. La storia della musica è piena di cantanti eccezionali, interpreti originali, ma solo le voci come quelle di Vargas possono permettersi questo azzardo, e trasformarlo in qualcosa di mai sentito prima.

“Arrivo a metà della canzone e, non so perché, ho la voce che si rompe, qualcosa che si lamenta, che si spezza. Non ho mai pianto in scena, non va bene. Canto così, come se la canzone potesse darmi un po’ di pace. Poi mi chiudo nella mia stanza e ricomincio daccapo”, ha spiegato Vargas al giornalista argentino Juan Ignacio Boldo.

“Ha liberato la musica ranchera da ogni stereotipo folkloristico e festaiolo”, dice Cammarata. Ha aggiunto ai testi il sottofondo di una diga che frana. Li ha rivestiti di dramma, e spesso laccati con la disperazione che segue le sbronze.

A metà degli anni settanta questa disperazione prende il sopravvento, Vargas è sempre ubriaca, non regge più né le canzoni né l’alcol, ma sceglie comunque la tequila. “Diceva che con l’autore José Alfredo Jiménez ne avevano bevuta così tanta che non ce n’era più di decente in Messico”, racconta Benjamin Moser sul New Yorker.

Scompare per quindici anni, un tempo abbastanza lungo per vedere un patrimonio dilapidarsi e gli amici morire. “Una sera di gennaio del 1991 capitò al bar El Habito, a Città del Messico”, racconta Adriano Sofri, “c’era un concerto, la presentatrice guardò in giro ed esclamò: ‘Accidenti, Chavela! Non è morta!’. La chiamarono a cantare, lei continuò a bere. Insistettero, finché non ebbe bevuto abbastanza che le sembrò lo stesso, cantare o no, e ricominciò a cantare. Meno male. Ero viva, dice, e mi credevano morta, sarò morta e mi crederanno viva”.

Werner Herzog le offre una parte in Grido di pietra, Pedro Almodóvar la fa cantare all’Olympia di Parigi, Salma Hayek la vuole con sé nel film su Frida Kahlo. Ha ottantacinque anni, ha inciso più di ottanta album, può permettersi di interpretare la morte e cantare La llorona:

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“Ho quasi paura di questa canzone”, dice Cammarata, “secondo me è una specie di formula magica, è anche una canzone di cui non si conosce l’autore, un tradizionale nel senso più puro. In Messico c’è chi dice che l’hanno scritta dei demoni. Io starei attento a La llorona”.

“Il titolo è intraducibile, risulterebbe qualcosa tipo ‘la piagnona’”, dice Dimartino. Parla di una figura mitica comune a molte culture, quella della donna che piange, distrutta per la morte dei figli. In alcune varianti del Sudamerica è lei stessa ad averli uccisi, in Africa ha il suono del vento, nelle Filippine quello di una sirena, nel quadro di Picasso la faccia scomposta in una smorfia di dolore.

Le lacrime sono una costante nella tradizione messicana, la scrittrice Sandra Cisneros ne racconta sul New York Times il bisogno, per Vargas e per il Messico: “Le feste messicane finiscono sempre con un bel pianto, ha notato una volta la giornalista Alma. Vargas ha soddisfatto questo bisogno nazionale di pianto”.

Lo ha fatto fino al 2012, quando è morta e i rancheros di tutta Città del Messico hanno suonato davanti la sua bara in piazza Garibaldi, la piazza dove aveva passato molte notti a cantare e bere.

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