01 aprile 2015 10:56

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Da sempre le donne hanno sofferto il dominio dei maschi, da sempre hanno dovuto accettarlo, patirlo. Nella società patriarcale delle montagne albanesi, fino a tempi recentissimi e forse ancora oggi, nonostante un regime che osava dirsi comunista, è stato in vigore un codice rigidissimo regolante i rapporti tra i ceti, i clan, i sessi: il kanun.

Una scrittrice, Elvira Dones, ne ha raccontato in un romanzo (Vergine giurata, Feltrinelli) da cui la documentarista Laura Bispuri e la sua cosceneggiatrice Francesca Manieri hanno tratto un film dallo stesso titolo, interpretato da Alba Rohrwacher e Flonja Kodheli.

Tra i monti dell’Albania e Bolzano, è la storia di una ragazza rimasta sola che viene accolta da un’affettuosa famiglia, dove una coetanea le fa da sorella. Però non resiste alla pesantezza delle norme che regolano tradizionalmente la vita di una ragazza e si fa maschio – il kanun lo prevede – rinunciando alla sua identità e sessualità. Da Hana diventa Mark. Poi emigra e ritrova a Bolzano la sorella, sposata e con una figlia, che la accoglie serenamente, e si riscopre donna, ritorna donna.

Il film alterna lo ieri albanese e l’oggi bolzanino, seguendo il suo personaggio con rispetto e trovando in Alba Rohrwacher l’attrice ideale, perfettamente cosciente della natura, complessità e durezza del suo personaggio.

Laura Bispuri dimostra una sensibilità e un talento personale raro anche tra le poche registe italiane, condizionate quasi sempre dai modelli narrativi, molto maschili, di quel cinema “ufficiale” e centrale, che potremmo anche chiamare romano, e della televisione.

Segue il filo logico di una narrazione che evoca e spiega, e che pone Hana/Mark di fronte alle contraddizioni di una società urbana e moderna, senza però concedere nulla alla denuncia facile, al moralismo e al confronto dogmatico noi/loro. La regista si dimostra tale nell’invenzione di piccole situazioni che accennano, suggeriscono, e a volte propongono stacchi molto netti in direzione di una lettura più profonda, non dichiarata, ma che sta allo spettatore cogliere nella loro allusività.

Per esempio, ricorrendo alla musica solo in alcuni momenti, con una funzione più straniante che di commento e sottolineatura di situazioni. Per esempio con una riflessione sui corpi, sul corpo, che passa – nelle scene girate in una piscina, motivo ricorrente della parte italiana – dalla transitoria perfezione del geometrico ballo acquatico di due nuotatrici fisicamente perfette alla confusione dei corpi, belli e brutti, maschili e femminili, giovani e vecchi di un’altra scena di piscina.

Per tornare infine al corpo di Hana, un corpo vero, che Hana torna a scoprire riconquistandolo, così come non riscopre ma scopre il sesso in un modo titubante ma diretto, privo di romanticismi. Finalmente “libera di non essere per forza qualcosa” (un progetto che dovrebbe ovviamente riguardare anche i maschi, anche qui, anche ora). Ottimo esordio, dunque, e un’altra buona speranza per il cinema italiano non ruffiano.

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