19 maggio 2015 11:59

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Si respira, nel film Leviathan di Andrej Zvyagincev, l’aria della grande letteratura russa dell’ottocento. Sembra quasi un ritorno obbligato ai grandi temi della vita e della morte, ma declinati con un’accanita attenzione ai dilemmi di un presente sgraziato e disagevole, quello degli anni di Putin.

Osteggiato in patria dal potere politico, ma anche da quello religioso (il vescovo ortodosso del film è un perfetto esempio di come, dall’interno delle chiese, sia possibile stare sistematicamente dalla parte sbagliata, un potere a fianco di altri poteri e ugualmente, intimamente corrotto), Leviathan lega le piccole e le grandi cose tra loro: affronta le esperienze concrete dei rapporti tra gli esseri umani, nella famiglia, nella società, nell’ambiente, dei rapporti tra l’uomo e la natura e la cultura e l’economia.

Narra la vita quotidiana di personaggi che non sono né più esemplari né più comuni di milioni di altri, anche in altre società come quella italiana di oggi, la nostra, ma non dimentica che, nei meno ottusi tra loro, nei meno “volgari” ma perfino tra i peggiori, sul fondo, un’incertezza e un’inquietudine metafisiche finiscono per affiancare la quotidianità, e ripropongono l’antica questione dei “perché”, del senso della nostra esperienza, del nostro passaggio sulla terra.

L’aneddoto è semplice: il sindaco arrogante, “putiniano”, di una città di provincia vuole strappare a un uomo la sua casa per farvi un albergo; l’uomo gli resiste e chiama in aiuto un vecchio commilitone che è avvocato a Mosca; sua moglie, la seconda, dolente e malinconica, lo tradisce con l’avvocato; il figlio adolescente della prima reagisce con aggressiva difficoltà alle complicazioni affettive dei grandi; il sindaco mostra i denti e ricorre a metodi di intimidazione classici, brutali; l’avvocato, minacciato e picchiato, ma anche aggredito dall’amico, torna a Mosca; la donna, di cui il marito ha scoperto il tradimento, si suicida o viene uccisa (da chi?).

Già i rapporti umani sono normalmente difficili, e non c’è tranquillità né speranza se ci si oppone a un ordine mafioso, supportato dai preti. Si direbbe che una stessa infelicità accomuni il paesaggio (la Russia del nord, sul mare, una natura non proprio clemente) e i personaggi, quasi cechoviani. Cose antiche, ma collocate in una realtà che è quella della Russia di oggi (in cinema, i paragoni possibili sono con il cinema degli anni di Chruščёv, per esempio Panfilov, ma lì la metafisica, se c’era, era nascosta e sfuggente, si era ancora in epoca “materialista” e c’era ancora la convinzione di un cambiamento per il meglio).

Nel modo in cui Zvyagincev chiama in questione sia un sistema di potere preciso, raccontato nelle sue complicità e nelle sue durezze, sia un’infelicità che è tanto privata che pubblica e tanto attuale che antica, la novità è Putin. Ma è una novità apparente: le sue radici stanno in ciò che lo ha preceduto, e il regista non esita a mostrare in sequenza i ritratti dei vecchi dominatori o mediatori, da Lenin a oggi. Ma la radice vera è il Leviatano di Hobbes, lo stato come fonte della legge, che stringe insieme il sacro e il profano, la religione e la politica, lo stato e il potere.

Nel lavoro di Zvyagincev c’è anche qualcosa che rimanda a Tarkovskij e al suo ultimo film Sacrificio, in una terra desolata, tra le scorie del passato e l’aggressione presente, in una natura che parla ma che non sembra voler più ascoltare. E c’è una morale evidente in una battuta dell’avvocato quando egli constata che tutti siamo colpevoli di tutto, responsabili di tutto in quanto accettanti questi modi di vivere, queste società, questi stati.

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