05 febbraio 2016 12:29

Ti guardo di Lorenzo Vigas ha vinto il leone d’oro all’ultimo festival veneziano, ma perde decisamente al confronto con un film confinato fuori concorso, Non essere cattivo di Claudio Caligari. Le passerelle internazionali giovano più al commercio che all’arte, anche se danno occasionalmente visibilità a qualche opera degna.

Ti guardo (“desde allá”, dice il titolo originale del film, e cioè da lontano) viene dal Venezuela, ma è coprodotto con il Messico, e viene da quel giro di nuovi cineasti latinoamericani molto ben piazzati all’interno della loro società, che si sono mossi tra Europe e Americhe e da qualche tempo hanno lanciato abilmente l’assalto a Hollywood, che ha sempre bisogno di portatori di nuove favole e nuove trovate, e cioè di nuovi squali. Vigas e il suo socio sanno quello che fanno, e sanno di che arte il mercato ha bisogno. Non il mercato dei supercolossi ma quello, appunto, dei “film d’arte” bene accetti al mercato. Non troppo costosi, pensosi non troppo.

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Questa premessa è noiosa ma necessaria: è utile collocare le opere nel contesto socioeconomico da cui nascono, e ricordare che i nuovi registi latinoamericani non sono migliori di altri arrampicatori contemporanei, anche italiani.

Non sono originali, il tema e il modo di trattarlo di Ti guardo, ma non sono neanche abituali. Storie come quella che vi è raccontata, altri le hanno affrontate – l’eterno rapporto dell’incubo e del succubo, della manipolazione psicologica del povero da parte del ricco, del sottoproletario o proletario da parte del borghese, del servo da parte del padrone, talvolta con le vittorie dei primi però provvisorie, raramente solide. In chiave moderna, da Hegel a Losey passando per Genet. Eccetera. La componente sessuale in primo piano, ma dentro la componente di classe, la dialettica del potere nel gioco delle psicologie.

Della strategia psicologica ci parla Vigas, narrandoci di un professionista di Caracas che odia suo padre e che deve, forse, aver avuto una sua famiglia (dagli oggetti e dalle immagini che si vedono nel suo appartamento). Sessualmente complicato – il sesso non è la pulsione più importante, tutt’altro – gli piacciono i ragazzi, ma ne cerca uno da piegare ai suoi voleri, in un confronto assai duro e rischioso, uno da mutare in strumento della sua vendetta. Fa dunque innamorare di sé, lentamente, subdolamente, a partire dal richiamo del denaro, un adolescente proletario che, anche lui, non è stato amato dal padre, come non avesse avuto nemmeno lui un padre degno di questo nome.

Lotta non solo di classe

Da queste comuni solitudini, mancanze, bisogni potrebbe venire un incontro relativamente felice, ma no, il borghese fa in modo che il proletario (o lumpen) uccida la persona che odia, per poi denunciarlo e farlo arrestare. Lo spregevole borghese contro l’ingenuo proletario – anche se in qualcosa si somigliano, per la sofferta assenza di una figura adulta portatrice di valori, di un super-io sociale e morale degno, o non degno ma comunque solido.

Poco di nuovo sullo schermo, anche se non sempre in modi così espliciti e così studiati, calcolati. C’è lo sfondo, poco più dello sfondo, di una città poco raccontata, c’è il ritorno a una tematica che è insieme sessuale ed economica, e di conseguenza sociale e morale. Ci sono due attori bravi e ben diretti. C’è un argomento che è sempre molto intrigante, ma c’è soprattutto la conferma generazionale di una “borghesia cinematografica” latinoamericana decisa a farsi avanti con molta spregiudicatezza, e inferiore per ora a quella letteraria.

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