22 aprile 2016 15:19

I David di Donatello per il cinema italiano dell’anno appena trascorso sono stati recentemente assegnati a Roma, con molta pubblicità, da votanti del mestiere, non solo critici, e se critici i più legati al “mondo dello spettacolo”, cioè al suo mercato. E sono stati una perfetta dimostrazione della situazione attuale del cinema italiano. Una dimostrazione ribadita dalla (giusta) scelta di Cannes di non ospitare film italiani in concorso.

Se ci sarà ancora una “storia del cinema” i tre film italiani della stagione 2015/16 risulteranno essere Bella e perduta di Pietro Marcello, Louisiana, il film americano (dico bene: americano) di Roberto Minervini, e quello postumo di Claudio Caligari, Non essere cattivo. Ai David il film di Caligari ha avuto molte nomination (nomination è una parola, non a caso, da Oscar), ma non ha vinto nessun premio. Hanno vinto le commediole di stagione, più o meno gradevoli e più o meno ruffiane, che si dividono in quelle dove si fa scialo di sentimenti e quelle dove si fa scialo di una blanda satira familista che sarebbe abusivo chiamare “di costume”, anche per non offendere la memoria dei Monicelli, Risi, Comencini, Age, Scarpelli e compagnia delle annate buone e vive.

Nessuno scandalo, però una conferma: si è trattato di una scelta esemplare che conferma in pieno la convinzione di chi pensa (come me, ma non sono certamente il solo) che il cinema si divide in due, oggi più che mai, non solo in Italia: il cinema/merce, dentro un sistema di cui si pasce e che pasce con grande soddisfazione dei suoi esponenti, adeguato al “piano del capitale” nazionale e internazionale e dunque importante come giro di soldi, come strumento di divertimento e indottrinamento di massa (aiutare i cittadini a non pensare è il fine cui lo destinano i padroni dell’economia e i loro servi i politici); e il cinema/arte o ricerca, che cresce ai margini del sistema, che è diverso dal primo non solo economicamente, ma perfino antropologicamente, se si considerano i suoi adepti.

Questa divisione appare così netta, oggi come oggi, solo nel cinema, anche se penso e mi auguro che finisca con l’affermarsi anche nelle altre forme espressive. L’arte (quella delle gallerie e dei musei, che un tempo si divideva in pittura o scultura o altro ancora), la letteratura e il teatro (anche se qui la distinzione va riproponendosi dopo anni di gran calderone istituzionalmente condizionato) non vedono questa stessa distinzione: lì, tra quelle muse, il gran calderone macina allo stesso modo e con le stesse norme il grande e il piccolo, l’alto e il basso, il bello e il brutto, il superficiale e il profondo, l’onesto e il disonesto.

Il cinema, dunque, offre un esempio importante di due vie del possibile e del già reale.

Certo, ci sono strade intermedie, e registi importanti che riescono ancora a fare film importanti dentro il sistema dominante. Ogni anno ci sono dei film, anche se pochi, che ce lo ricordano e ci rallegrano, anche se in Italia questo succede molto meno che altrove, anzi quasi mai visto che dentro il mainstream economico e culturale romano il “cinema d’autore” è una rarità assoluta, anche se nei salotti che contano è possibile incontrare alcuni presunti autori e qualche ex autore. Ma è bene augurarsi che, anche lì in mezzo, qualche vero artista capace di farsi specialista negli slalom più aggiornati possa trovare il modo di, come si dice, esprimersi.

Claudio Santamaria, Ilenia Pastorelli, Gabriele Mainetti, Antonia Truppo e Luca Marinelli con i premi vinti per Lo chiamavano Jeeg Robot, Roma, il 18 aprile 2016. (Ernesto Ruscio, Getty Images)

Però è bene soffermarsi sulle due vie. Nei lontanissimi anni sessanta dell’altro secolo si parlò per un certo tempo, in Francia e altrove, di un “cinema parallelo” a quello dominante, una definizione che riguardava in realtà il cinema militante e quello sperimentale. Però il mainstream era ancora e spessissimo entusiasmante, perché il cinema dialogava col pubblico ed esprimeva le novità, le insoddisfazioni e le speranze dell’epoca, recepiva i suoi umori, sapeva addirittura prevederli o promuoverli. Oggi questa distinzione potrebbe tornare utile a spiegare le due vie seguite dal cinema del presente, considerando più o meno morto il “cinema militante”, nel senso politico che aveva allora.

L’attenzione al vero e al bello sono più frequenti tra chi sta ai margini del sistema

La prima è quella “ufficiale”, che a Roma si è consolidata con la fondazione di Cinecittà e la romanizzazione e statalizzazione del cinema, una linea e una scelta e una condanna che sono passate tranquillamente dall’egemonia fascista a quella della sinistra e poi dei suoi residuati istituzionali. Oggi bisognerebbe parlare più di corporazione (e salotto) che di partito, anche se le leggi le hanno sempre fatte nonni e padri e figli e nipoti della stessa corporazione (e dello stesso ambiente sociale e culturale). Nelle corporazioni più influenti si entra, come ogni giovane impara presto, per eredità o per cooptazione, se si è figli della corporazione o si è particolarmente adeguati, nel dna, alle leggi dell’arrivismo. Rarissime anche qui le eccezioni, a sinistra come a destra.

L’attenzione al vero e al bello e la qualità dei risultati sono, di conseguenza, molto più frequenti tra chi sta i margini del sistema che tra chi ne è al centro o negli immediati dintorni, e che impara a elemosinare uno spazio, una visibilità (o osa chiamarsene fuori e ci riesce, date le condizioni imposte dal centro). È questo il cinema parallelo, un cinema che non accetta le regole del sistema e cerca di sopravvivere, ai margini, poveramente, inventando forme e progetti, ma anche spazi, cioè un pubblico altrettanto parallelo.

È quello che hanno tentato due piccoli capolavori come Non essere cattivo e Louisiana, e altri film ancora (piccoli o grandi a seconda delle opinioni dei critici non pubblicitari; io li considero grandi), assistiti da piccoli distributori che ne condividono le idee e il progetto. Giustamente il cinema mainstream (i salotti romani, se così vogliamo chiamarli per comodità) li ha spregiudicatamente e, diciamolo, disgustosamente puniti.

In qualche modo, da spettatore e da critico, io ne sono felice, perché mi auguro che, di fronte al verdetto dei votanti dei David, si faccia un po’ di chiarezza sulla situazione del nostro cinema e della nostra cultura, della nostra società. E di conseguenza si provi a organizzarsi altrimenti che muovendosi alla coda del potere e confondendosi tra i suoi ruffiani.

Nel 1941 Luchino Visconti, che stava per debuttare come regista dirigendo con Ossessione il primo film della rinascita del cinema italiano, collaborava con la rivista Cinema diretta da Vittorio Mussolini, figlio del Duce. Scrisse un articolo sulla situazione del nostro cinema ufficiale e dei suoi funzionari che volle intitolare Cadaveri. Si potrebbe ripubblicarlo oggi tale e quale.

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