13 maggio 2016 15:36

Strano film sconcertante, l’ultimo del grande regista cinese Jia Zhang-ke, a cui dobbiamo due precisi e tremendi ritratti delle mutazioni in corso, che non riguardano soltanto la sua Cina. Autore di almeno due dei film più importanti degli ultimi anni, Still life e Il tocco del peccato, Jia Zhang-ke ha cercato con l’ultimo, Al di là delle montagne, di proseguire il suo discorso sulla mutazione in atto nel suo paese, o avvenuta massicciamente, cercando la strada della sintesi filmica di storia e di previsione, tra passato, presente e futuro raccontati usando addirittura tre diversi formati fotografici.

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Un’ambizione forte ma stavolta non sorretta da una eguale capacità di penetrazione, anche se sono ancora indubitabili la sincerità e l’altezza del progetto di Jia. I tempi storici affrontati sono il 1999, alla fine di un secolo e agli albori di un altro, il 2014 delle avvenute trasformazioni e delle loro conseguenze e il 2025 di un domani, in cui all’ambientazione fondamentale della città di Fenyang, città-cantiere (e città natale del regista), e nonostante le puntate altrove, capitale compresa, si sostituisce un’Australia ricca e lussureggiante. La mutazione è narrata anche mostrando come sono cambiati consumi e abitudini e divertimenti collettivi, un’americanizzazione continua. Ma l’ambientazione a Fenyang insiste sull’aridità di un paesaggio (di cui si dice che si procederà al suo rimboschimento) sconvolto dagli scavi e dall’inquinamento.

A reggere il confronto tra le epoche è la storia di tre amici: Tao, ragazza di vitale autonomia, Lianzi, proletario sensibile, e Zhang, borghese arrivista che finisce per conquistare lui Tao e per sposarla. Nella seconda parte Tao è divorziata, vive da sola e gestisce una stazione di servizio, il figlio è stato affidato al padre (che ha voluto avesse come nome di battesimo nientemeno che Dollar) ed ella può infine vederlo solo ai funerali del nonno – il padre di Tao, proletario d’altri tempi che ha assistito con silenzioso dolore ai mutamenti –, per constatare la difficoltà di comunicazione con un bambino che sembra totalmente conquistato da un nuovo e ricco modo di vivere.

Lianzi ha continuato a fare il minatore migrando come tanti in altra parte della Cina; si è sposato, ha un cancro mortale e la moglie chiede aiuto a Tao (e d’ora in poi lo si perderà di vista). Nella terza parte del film, Dollar e il padre vivono da ricchi in Australia, ma Dollar è un giovane sensibile e insoddisfatto, che ha una storia molto edipica con una sua maestra di cinese (lui è ormai integrato nel nuovo mondo, mentre Lianzi nonostante tutti i suoi sforzi no) e ha nostalgia della madre. Tao vive da sola, ma è ancora dotata di una serena e malinconica solidità, e “sente” la vicinanza del figlio nonostante la distanza geografica.

Un mondo che cambia

La prima parte è di melodramma freddo, distaccato e quasi gelido meno quando è in scena Lianzi. Vi si racconta la mutazione dal dentro, con lucida freddezza, a partire da una storia che appare tra le più comuni. A un certo punto del film compare una scritta col titolo del film e il nome del regista, come a segnare una cesura che annuncia l’ultima parte. Cambia il mondo e cambia anche il cinema di Jia? È come, infatti, se il resto del film non fosse pienamente suo.

Anche se non ne vengono dichiarate le ragioni, su uno schermo largo e pieno e colorato, in ambienti ipermoderni ma su uno sfondo naturale abbagliante, in un mondo di ricchi indaffarati, assistiamo adesso a una sorta di melodramma “caldo” e, diciamo così, più psicologico che sociologico, paratelevisivo e “americano” e notevolmente stucchevole. Si tratta di un cedimento? o non, piuttosto, di una scelta in qualche modo provocatoria? È un modo di dire che questa è la visione che ha vinto, un mondo globale di rappresentazioni sentimentali superstiti, nostalgiche, e infine superflue?

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