22 giugno 2016 18:30

Richard Gere ha voluto essere una persona prima che un divo (o perfino un sex symbol, in anni ormai lontani e grazie ad American gigolo), e ha cercato, si è cercato, in più direzioni. Non è un fenomeno nuovo quello dei divi a cui non basta il successo e usano soldi e fama per sentirsi importanti e non dei bambocci da grande schermo, buttandosi in imprese benefiche o in avventure politiche. Il disagio di Gere sembra però sincero e il fatto di aver voluto un film difficile come Gli invisibili (Time out of mind) ne è una prova. È in scena dall’inizio alla fine, ma sa compenetrarsi del ruolo di un homeless, uno dei tanti prodotti dalla crisi nel vasto seno della middle class, e regge il peso del film con pudore e misura.

Quel che non convince è piuttosto il regista, Oren Moverman, anche scrittore, giornalista, sceneggiatore, molto ambizioso ma di non chiare, o ben supportate, vedute. Il suo film sembra seguire i dettami del “pedinamento del personaggio” alla Zavattini, affidandone però il ruolo non a qualcuno “preso dalla vita” ma a un divo hollywoodiano che interpreta un nuovo povero, e non si dimentica mai che è Richard Gere. Moverman quindi punta tutto sull’ambiente, questo sì “preso dalla vita”: strade, metropolitane, bar, chiese, rifugi, uffici, dormitori, scantinati…

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È la New York dei reietti, dei loro modi di sopravvivere, delle burocrazie assistenziali, delle piccole violenze e delle ancor più piccole solidarietà tra perduti, un mondo che il cinema ha affrontato raramente (molto spesso documentario e a volte con forza e pudore) e, anche quando ha girato nei luoghi e tra le persone giuste, quasi sempre con un’estetica da studio. E almeno una volta da fiaba come con Terry Gilliam, nella Leggenda del re pescatore.

Moverman sa cogliere la verità degli ambienti in cui il nuovo barbone Gere si aggira, cosciente della sua sconfitta umana e sociale, rispetto al modello americano, e confuso dagli incontri col sottomondo di quelli come lui tra i quali non sa ancora trovarsi, e con la burocrazia che si occupa dei poveri. L’incontro più ossessivo è quello con un chiacchierone mitomane nero che finisce per comportarsi come un suo doppio. Predilige le riprese dal basso e soprattutto quelle attraverso finestre e vetrine, un filtro che diventa la cifra stilistica, o almeno così egli sembra pretendere, del suo mestiere, della sua “scrittura”.

Richard Gere non è un homeless, è un attore travestito da homeless

Non c’è però solo questo, non c’è solo l’aggirarsi sperduto di un nuovo povero nella marginalità che è di tanti, quella che sfioriamo ogni giorno facendo magari finta di non vederla. C’è anche la tradizione tutta hollywoodiana e americana del melodramma familiare vagamente freudiano, c’è l’usuale filigrana del romanzo che finisce con l’aggredire e svilire la forza del documentario. Il protagonista ha una figlia che non lo ama ma che, alla fine, si pente, lo rincorre. Lo assisterà.

Tutto è bene quel che finisce bene, a Hollywood e a New York, ma di queste astuzie così predeterminate e insincere rispetto ai grandi problemi dell’ingiustizia e della miseria il cinema attuale ha poco bisogno, e chiede altre verità, nel documentario, nel romanzo e nelle ibridazioni possibili tra documentario e romanzo. Gere non è un homeless, è un attore travestito da homeless. Moverman non è Jack London, è un regista che sa navigare nel mondo dei ricchi, come tanti suoi colleghi, parlando dei poveri. Anche nel cinema, oggi più che mai, ci sono ibridazioni necessarie e ce ne sono di fasulle, di modaiole. L’oscillazione di Moverman è di quelle meno sincere, e dunque delle più opportunistiche, delle meno simpatiche.

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