25 settembre 2016 18:00

Bernardo Kucinski, K. o la figlia desaparecida
Giuntina, 172 pagine, 15 euro

Siamo nel 1974, in Brasile c’è la dittatura e la figlia di un poeta e studioso ebreo che è cresciuto in Europa ed è scampato alla shoah, una giovane insegnante universitaria, scompare col marito nel nulla. Il padre cerca le sue tracce, contatta chi può (anche ebrei statunitensi influenti) ma inutilmente.

Il romanzo è questa ricerca, e mescola la voce del vecchio a quelle dei comprimari, dei testimoni, degli aguzzini, dei mitomani imbrogliatori di piste, di chi ha partecipato alla vicenda da una parte o dall’altra di una realtà confusa, decifrabile solo a distanza, con la distanza della letteratura più ancora che con quella della storia. Il racconto ha una base molto vera, la scomparsa della sorella di Kucinski e del marito proprio nel 1974 ed è il frutto di una lunga elaborazione, l’esordio in letteratura nel 2011 di un settantasettenne noto giornalista, studioso di economia che è stato anche consigliere di Lula.

Il filo che regge la narrazione non è solo la denuncia di una tragedia politica dalle continue ramificazioni, della confusione sociale e morale che essa si trascina dietro. È il portato dell’eterno senso di colpa che è quello eterno dei sopravvissuti nei confronti delle vittime, in particolare di quelle che essi hanno conosciuto. Il K. del titolo rimanda forse anche a Kafka, alle sue constatazioni e premonizioni.

Questa rubrica è stata pubblicata il 9 settembre 2016 a pagina 88 di Internazionale.Compra questo numero | Abbonati

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