03 ottobre 2016 14:51

Implacabile, Woody Allen confeziona e diffonde ogni anno una sua commedia cinematografica, per fortuna rinunciando infine ad apparirvi al centro della scena (è sempre stato un attore scarsissimo, come i suoi imitatori, anche italiani).

Ripetitivo, molto spesso noioso, ma sempre provvisto di una certa eleganza, in Café society costruisce con ottimo mestiere scene e ambienti, ricama figurine esili che si reggono in piedi nel loro balletto risaputo grazie alla finezza del tocco, alla levigata perfezione degli ambienti, alla fotografia da magazine di lusso (di Storaro, qui forse al massimo del suo manierismo), alla irrinunciabile appartenenza ebraica (anche qui con le inevitabili mamme, gli inevitabili gangster, le inevitabili disquisizioni più o meno teologiche), e infine alle battute, a volte off, spesso indovinate, da cabaret intellettuale, che mandano ancora in visibilio i suoi estimatori mondiali, invecchiati con lui: i laureati che apprezzano l’ironia a danno altrui, talvolta perfino con un pizzico – senza esagerare – di autoironia, i frequentatori dei salottini tardo-liceali (non è solo l’autore a tenerci lontani, in questo genere di film, è anche, da sempre, il loro pubblico).

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Però è da molto tempo che un film di Woody Allen non ci lasciava con la sola sensazione del déjà vu e del già ascoltato. Degli ultimi appuntamenti annuali il migliore ci sembra ancora Midnight in Paris (2011), dove la solita ricetta funzionava, come infine funziona in questo Café society, nonostante tutto. Per esempio, nonostante la stucchevole ambientazione nella Hollywood anteguerra (ma per il cinema americano, che è sempre un pre o in o postguerra, bisognerebbe precisare: prima della seconda guerra mondiale o Ww2 come abbreviano gli storici). Allen appartiene alla generazione che è vissuta del mito della Hollywood classica, e qui abusa di una sfilata di nomi e situazioni canoniche.

Allen si dichiara estimatore del grande Lubitsch, della tradizione della commedia sentimentale degli anni trenta-cinquanta

Quale dunque il segreto di questo risultato non annoiante? Il primo è la velocità. Il cinema hollywoodiano di oggi è isterico (i supereroi) o sbadigliatorio (i “drammi” e le “commedie” di una piccola borghesia facilmente consolabile e alienabile, come dovunque). Qui ci sono invece ritmo, scatto, un “tempo” morbido e rapido accompagnato da musiche d’epoca che sono, sì, l’equivalente delle citazioni hollywoodiane, ma che parlano a tutti per la loro forza evocativa e la loro squisitezza.

Come in un vecchio gioiellino di tanti anni fa, Manhattan, addirittura in bianco e nero (fotografia di Gordon Willis, stupenda), Allen si dichiara estimatore del grande Lubitsch, incantato dalla tradizione della commedia sentimentale degli anni trenta-cinquanta, e riesce a ricrearne i modi, con l’aggiunta di una buona dose di posteriore nevrosi.

Insomma: la chiave del film e di tanti altri suoi film è la nostalgia, per un mondo più immaginato che vissuto, per un’immagine degli Stati Uniti introiettata grazie al cinema e alla musica ma che non va, o non osa, andare oltre, scavare, discutere, prender posizione, schierarsi. Il triangolo amoroso del film, proprio perché tutto interno alle mitologie americane di sempre, porta piuttosto alle non scelte (all’accettazione della cultura circostante), e di conseguenza, con il tempo che passa e va, a un’obbligata, ammassata malinconia, a un’accettazione dei mali del mondo e della società senza un briciolo di messa in discussione, tantomeno di rivolta.

Commedia sentimentale ben fatta, Café society piace e irrita insieme, perché è fuori tempo ed evoca il buon cinema di un tempo, perché evoca e rimpiange un’epoca forse migliore di questa (?), ma dalla parte di chi non ha mai messo in discussione un bel niente.

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