18 febbraio 2017 17:55

Arturo Belluardo, Minchia di mare
Elliot, 186 pagine, 15 euro

“Peter Parker era il mio eroe. Quel caruso un po’ minchia di mare, pigghiato po’ culu dai suoi compagni di scuola (un po’ come ammia, ’nzomma) (…) che riceve grandi poteri e grandi responsabilità dal morso di un ragno (…) e che diventa eroe pecché ci ammazzano so’ ziu. Ora: io ero solo un po’ minchia di mare, non avevo grandi poteri e purtroppo mio padre non era morto”.

L’eroe narrante è Davide Buscemi, prima bambino e poi adolescente, che cresce negli anni settanta in una provincia che muta, afflitto da un padre odioso che infine libera tutti da un peso morendo nelle ultime pagine del romanzo. Anche i dialetti sono mutati, e con rare eccezioni sono i resti di un vocabolario invaso da un cattivo italiano. Belluardo, siracusano quarantenne, ricorre al dialetto come a un rafforzativo che aiuta a definire un ambiente, che serve per raccontare e raccontarsi, per dare carattere e necessità a un’esperienza di vita per niente originale.

Nella prima parte, Davide è una sorta di Pel di carota di una società dove i mezzi d’informazione hanno grande peso e con un padre maschilista e manesco: un vecchio e un nuovo poco simpatici. Non è stato facile crescere in quel mondo e in quegli anni e oggi è ancora più difficile, tra adulti comunemente alienati. I Davide sono milioni, e il sonno degli anni ottanta e novanta ha gravato i loro fratelli minori di pesi anche maggiori e di maggiore imbecillità.

Questa rubrica è stata pubblicata il 17 febbraio 2017 a pagina 80 di Internazionale, con il titolo “In Sicilia tra vecchio e nuovo”. Compra questo numero| Abbonati

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