05 marzo 2017 17:52

H. G. Wells, La macchina del tempo
Einaudi, 126 pagine, 17 euro

In un’ottima traduzione e con un’ottima introduzione di Michele Mari, e in una delle poche belle collane di narrativa coerenti, le Letture Einaudi, torna un capolavoro della fantascienza delle origini (1895) che nulla ha perso del suo smalto e della capacità di inquietarci. La macchina ideata da “uno di quegli uomini troppo sottili per essere creduti” – un sogno antico e impossibile – trasporta il suo inventore indietro e in avanti, tra la preistoria e il futuro, e l’avanti è tutto fuorché ideale.

Non è il sogno di un’umanità liberata, tuttavia l’angosciosa divisione tra un popolo sotterraneo, pallidissimo e famelico erede di un proletariato di schiavi, e un popolo di superficie di privilegiati, non oppressi da nessun obbligo che quello di divertirsi ma proprio per questo esangui e incapaci di difendersi, ha una sua metaforica e angosciante attualità oggi più che mai. Nel mentre che i viaggi nel passato, fedeli al magistero darwiniano e huxleyano (contro gli ottimismi spenceriano e socialista) ci ricordano la lentezza di ogni crescita e la rapidità di ogni decadenza. Visionario ma razionale, il viaggio nel tempo in cui si perde l’inventore ricorda al narratore che quello “aveva un’idea sconsolata del progresso del genere umano, e nel crescente edificio della civiltà vedeva solo un ammasso scriteriato destinato inevitabilmente a crollare”.

Questa rubrica è stata pubblicata il 3 marzo 2017 a pagina 84 di Internazionale. Compra questo numero| Abbonati

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