13 luglio 2016 15:34

Caro dottore,
sono quello che si potrebbe definire un bibliomane “in erba”, all’età di 24 anni mi ritrovo alle prese con una voglia frenetica di accumulare libri costretto ahimè a sedermi alla mensa delle mie ristrettezze economiche, situazione che mi provoca non pochi disagi e che saltuariamente sfocia in spese folli e non sostenibili. Non potendo permettermi non solo i testi che vorrei possedere ma neanche tutti quelli che vorrei leggere sono diventato un frequentatore di biblioteche, saziando così, almeno in parte, la mia curiosità letteraria ma torturando la mia bibliomania al momento di ogni restituzione. Ora veniamo al caso: tempo fa presi in prestito Racconti fantastici russi, un’edizione del 1992 di cui mi sono subito innamorato. Ci tengo a specificare che il testo in questione non veniva preso da nessuno dal 2011. Al momento della riconsegna ho sentito una fitta al cuore. Ritenni inconcepibile che quel libro dovesse rimanere a marcire su uno di quei polverosi scaffali per essere ripreso tra chissà quanti anni. Il giorno dopo, spinto da tali motivazioni, tornai alla biblioteca, lo misi di soppiatto nello zaino e me ne andai facendo finta di niente. Ancora oggi non so se ho fatto bene o male, lei crede che sia un gesto riprovevole?

— Francesco S., Roma

Caro Francesco,
Mi metti davanti a un dilemma deontologico piuttosto comune, ma non per questo facile da sciogliere. Al pari di un avvocato, il bibliopatologo ragiona sempre nell’interesse del suo cliente, foss’anche un serial killer sociopatico; come un confessore, è vincolato al sigillo sacramentale, dunque a un segreto inviolabile. A complicare il quadro c’è che i nostri colloqui si tengono in pubblico, non tra le pareti di uno studio legale o attraverso la grata di un confessionale. Per non cadere nell’apologia di reato o, peggio, nell’istigazione a delinquere, ti risponderò con due storie che suonano quasi come parabole.

Non so se hai mai visto Seinfeld, la mia sitcom preferita. Nella puntata The library, Jerry finisce in un pasticcio che non è pretenzioso definire dostoevskiano. Ad attenderlo sulla soglia del suo appartamento trova la sinistra figura di un library cop, convenientemente chiamato Mr. Bookman, che gli contesta di non aver restituito una copia di Tropico del Cancro presa in prestito nel 1971. Jerry è convinto di averlo riconsegnato entro il termine previsto, ma sono passati vent’anni. Come ricostruire ormai il giorno del delitto, o del mancato delitto? Dove recuperare quella copia del romanzo di Henry Miller? A quante migliaia di dollari potrà ammontare la multa per un ritardo ventennale? E soprattutto, era Tropico del Cancro o Tropico del Capricorno? Tutti li confondono da sempre (probabilmente anche Miller). Mr. Bookman, che ha più di un’eco del giudice istruttore Petrovic di Delitto e castigo, tratta Jerry come un nuovo Raskolnikov, convinto di potersi mettere al di sopra della legge.

Una scena della puntata The library della sitcom Seinfeld.

L’altra parabola è un aneddoto riportato da Luigi Santucci nella Nota del traduttore che precede l’edizione italiana di L’amore e l’occidente di Denis de Rougemont. Nella primavera del 1944 Santucci faceva stallo insieme ad altri partigiani nel castello di una principessa in Canton Ticino, dove c’era una biblioteca anch’essa principesca:

La mia mano (mi vergogno un po’ a confessarlo) corse su questo volume il cui titolo, creduto malizioso, prometteva letture galanti e forse piccanti a quella pigrizia erotica e meridiana che la vita di guarnigione suole ingenerare. Ma l’addentrarmi nelle sue pagine, nonché deludermi, mi portò subito a un’esaltazione, per fortuna su altri livelli: a quell’incapacità di staccarsi dal libro che caratterizza i grandi incontri, le decisive scoperte intellettuali che ci segnano per tutta la vita. Tanta esaltazione che, quando la fanfara squillò per me a ributtarmi da quell’arcadia elvetica nella bolgia del Nord Italia, non resistetti a consumare un piccolo e tutto italico tradimento verso la mia ospite: mi ficcai nello zaino L’amour et l’occident.

Se esco vivo dalla guerra, si disse Santucci, lo tradurrò e gli troverò un editore. Così fece, e portò in Italia uno dei grandi libri del novecento. Il suo “antico peccato di ladro” gli sembrò riscattato da questo ravvedimento operoso. Oltretutto la nota è del dicembre 1976, trent’anni dopo i fatti, ben oltre i termini di prescrizione e, immagino, a principessa stecchita.

Dunque, caro Francesco, la scelta sta a te, e tutto dipenderà da come amministrerai i talenti ottenuti con il taccheggio. Se, come Jerry Seinfeld, dimenticherai perfino il titolo del libro, potresti trovarti tra vent’anni un piccolo Petrovic bibliotecario in impermeabile scuro che ti aspetta sull’uscio di casa; se, prendendo esempio da Santucci, scriverai racconti così belli che nel 2116 un nuovo bibliomane ventiquattrenne vorrà infilarseli di soppiatto nello zaino, la storia ti assolverà. Sempre, beninteso, che per rubare i Racconti fantastici russi tu non abbia ucciso a colpi di scure una vecchia bibliotecaria e sua sorella.

Il bibliopatologo risponde è una rubrica di posta sulle perversioni culturali. Se volete sottoporre i vostri casi, scrivete a g.vitiello@internazionale.it

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