24 agosto 2016 13:41

Recentemente sono stato redarguito a causa di quella che non credevo essere una bibliopatologia: la lettura ossessiva degli epistolari. Mi è stato detto che un vero lettore si dovrebbe astenere dal leggere le lettere dei suoi autori preferiti (il caso specifico era Cristina Campo), perché deviano dalla sostanza, dalla loro opera (questa la terminologia dell’accusatore). Io che cosa ci posso fare? Leggo più volentieri le lettere di Leopardi che le Operette morali; voglio sapere con chi cenava a Roma, quale edizione spagnola del Don Quixote possedeva, di che colore portava il mantello; voglio cercare di entrare nella sua vita. È normale? Devo considerarmi un lettore malato?
—Marcello Sessa, dalla grigia Brianza

Caro Marcello,
è una domanda che mi sono fatto per la prima volta ben otto Olimpiadi fa: Los Angeles 1984, che fu per me l’anno della Grande Ustione. Avevo otto anni, ero in Sardegna, e dopo appena un giorno di mare avevo le spalle color viola addobbo funebre. Risultato: gli altri a giocare in spiaggia, io in casa a ululare e a leggere, perché delle Olimpiadi capivo poco. Non che leggessi chissà quale epistolario illustre – non ero un enfant prodige o un “bambino indaco”, ero un comune cretinetto viola. Leggevo Caro amico di matita, un piccolo libro Bur a fumetti dedicato alla corrispondenza di Charlie Brown. Una striscia mi colpì molto, ed è all’origine del mio disagio verso il genere epistolare. Eccola qui:

Charles M. Schulz, Caro amico di matita, Rizzoli 1982.

Ora, non so se vivere nella grigia Brianza abbia qualcosa in comune con l’essere reclusi in una casa di villeggiatura a scacciare le mosche; ma se così fosse, non mi stupisco che ti piaccia tanto violare la segretezza della corrispondenza e sbirciare nella vita altrui. Nella vita? È qui il punto. Le lettere sono solo uno dei tanti palcoscenici su cui un autore allestisce il suo spettacolo, come lo sono i diari intimi e le autobiografie (il genere più menzognero che esista).

Perciò con qualche riluttanza anch’io – che considero il pettegolezzo un crimine appena meno grave dell’infanticidio – mi sono rassegnato a leggere epistolari. Non inseguo tra le lettere il demone dell’autenticità, ma le stesse cose che cerco nelle opere scritte per essere pubblicate: l’eleganza dello stile, l’esattezza delle notazioni, l’acutezza dei giudizi. Cambiano le platee – non ci si rivolge a quel fantasma chiamato “pubblico”, ma ad altri interlocutori a volte non meno spettrali; anche parlare a sé stessi, diceva Valéry, non è così diverso dal consultare gli spiriti. E, con le platee, cambiano gli stili.

Conoscerai forse questa rinomata pagina di Antonio Gramsci:

C’è una differenza di stile tra gli scritti dedicati al pubblico e gli altri, per esempio tra le lettere e le opere letterarie. Sembra spesso di aver che fare con due scrittori diversi tanta è la differenza. Nelle lettere (salvo eccezioni, come quella di D’Annunzio che fa la commedia anche allo specchio, per se stesso), nelle memorie e in generale in tutti gli scritti dedicati a poco pubblico o a se stesso, predomina la sobrietà, la semplicità, la immediatezza, mentre negli altri scritti predomina la tronfiezza, lo stile oratorio, l’ipocrisia stilistica. Questa “malattia” è talmente diffusa che si è attaccata al popolo, per il quale infatti “scrivere” significa “montare sui trampoli”, mettersi a festa, “fingere” uno stile ridondante, ecc., in ogni modo esprimersi in modo diverso dal comune.

Gramsci non poté mai vedere Totò, Peppino e la malafemmena, dunque si perse la scena della dettatura della lettera, dove l’italiano era imprudentemente issato su trampoli tanto più pericolanti quanto più vertiginosi. Ma lo stesso Leopardi, che tu menzioni, non era del tutto immune dalla malattia. Sapere con chi cenasse a Roma non mi interessa poi tanto, ma mi diverte trovare nell’epistolario frasi come questa, che immagino in tono con i suoi commenti del dopo cena: “Pare che questi fottuti Romani che si son fatti e palazzi e strade e chiese e piazze sulla misura delle abitazioni de’ giganti, vogliono anche farsi i divertimenti a proporzione, cioè giganteschi, quasi che la natura umana, per coglionesca che sia, possa reggere e sia capace di maggiore divertimento che fino a un certo segno”.

Il caso di Cristina Campo è più vicino a quello di D’Annunzio; ma non perché anche lei facesse “la commedia davanti allo specchio”, secondo il commentino sarcastico di Gramsci, che servì da faro per generazioni di abbagliati. Aveva, semmai, dello stile un’idea liturgica, e scriveva ogni parola come se dovesse renderne conto nel giorno del giudizio – come forse sarà. Per questo i suoi carteggi non valgono meno dei suoi altri scritti. E per questo li ho collezionati negli anni, senza farmene sfuggire nessuno, neppure gli opuscoli che raccoglievano una mezza dozzina di lettere appena. Dopotutto, Cristina Campo ci ha costretti a frugare nel suo epistolario, e forse un giorno nelle sue liste della spesa: non ha scritto abbastanza per consolare il grigiore della metafisica Brianza in cui siamo tutti confinati.

Come tuo bibliopatologo, perciò, ti invito a stare attento ai dosaggi: non più di una lettera al dì. E mi raccomando, lontano dai pasti, perché il tuo sistema immunitario possa proteggerti al meglio dalla più tossica delle esortazioni: “Parla come mangi”.

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