09 marzo 2017 13:38

Gentile bibliopatologo,

il mio problema è che leggo troppo velocemente. Non solo i singoli libri, che comunque divoro in tempo breve. Il fatto è che, quando finisco un libro, dopo poche ore ne ho già cominciato un altro. Questi tour de force hanno una conseguenza terribile: non riesco a godermi la lettura, che non mi lascia niente. Il Maestro e Margherita, per esempio, è come se non lo avessi mai letto, non ricordo nulla se non che mi era piaciuto. Che posso fare?

–Sandro

Caro Sandro,
il tuo disturbo è tutt’altro che raro, e mi piacerebbe tanto poterti dire che ne sono immune. Nel trattatello settecentesco sulla bibliomania di Louis Bollioud-Mermet, che ho già raccomandato ad altri pazienti dell’istituto bibliopatologico, c’è il tuo e mio ritratto:

Potremmo anche paragonare quelli che svolazzano da un libro a un altro a quelli che chiedono consigli a tutti, e alla fine non si fidano di nessuno: hanno molti consigli ma nessun amico. Apuleio li chiama Curiosulos e Cicerone Helluones librorum, cioè Ghiottoni di libri. Senza mai fermarsi su una scelta buona, attraversano tutti i paesi delle lettere, con l’aiuto di una lettura veloce e superficiale. Lo spirito umano tuttavia è come una pianta: non guadagna nulla a essere trapiantato di continuo.

Oggi però sono a corto di teoria, e dovrai accontentarti di un paio di esercizi. Il primo serve a coltivare quel sano attrito tra l’occhio e la pagina che fa della lettura un’esperienza avventurosa, piena di asperità, crepacci, massi che ostruiscono il passaggio, belve feroci pronte a sbranarti. Non dico che tu debba inciampare in ogni parola, ma se il tuo occhio vola troppo, allora delle due, l’una: o è un libro scritto nel cosiddetto “stile scorrevole” – che Baudelaire annoverava tra gli orrori nati nel diciannovesimo secolo – e allora tanto vale ignorarlo; oppure non hai ingranato la marcia giusta, stai leggendo in folle, e per quanto tu possa pigiare sull’acceleratore non ti sposterai di un metro.

Anni fa, in spiaggia, ebbi la fortuna di assistere a una piccola scena archetipica. I miei due nipotini, allora di sette e cinque anni, leggevano insieme Topolino sotto l’ombrellone. Il più grande finiva più in fretta e voleva voltare pagina; il piccolo si sentiva raggirato: “Uffa, lui fa finta di leggere, non muove neanche la bocca!”. Scena archetipica, perché rimanda al celebre passo del sesto libro delle Confessioni in cui Agostino descrive le insolite abitudini di lettura di Ambrogio: “Nel leggere, i suoi occhi correvano sulle pagine e la mente ne penetrava il concetto, mentre la voce e la lingua riposavano”.

A quanto pare, la lettura silenziosa e tutta mentale (o endofasica) era ancora piuttosto rara, e fino al medioevo i pochi che sapevano leggere facevano più o meno come il mio nipotino più piccolo. Con la diffusione della stampa la ruminazione a voce alta uscì di scena, e finì per rintanarsi tra i bimbi dell’asilo. Ora, non ti chiedo di ricominciare a compitare le parole, ma ci sono altri modi per ricreare quell’attrito perduto. Per esempio, quando ti imbatti in una pagina che ti piace, perché non provi a trascriverla? Vedrai che, superata la noia dello scolaretto riluttante, potresti notare quei dettagli del paesaggio che, sfrecciando a tutto gas, vanno perduti.

Secondo esercizio – questo per combattere l’ingordigia del Ghiottone di libri. Io non so perché tu legga tanto voracemente e con così poca passione; spero però che non sia per acquisire un adeguato “bagaglio culturale” – la più truffaldina delle metafore.

La mente non funziona come un ripostiglio, un simile bagaglio non esiste, e se esiste è come le valigie dell’onorevole Trombetta che Totò lancia a una a una dal finestrino del wagon-lit, salvo rassicurarlo di averle sistemate per bene. In un’intervista di qualche anno fa George Steiner raccontò come, grazie a una regola ferrea imposta dal padre, mise l’uno sull’altro i primi mattoncini della sua spaventosa erudizione. Sai cosa doveva fare?

Un breve riassunto: non avevo diritto al libro successivo prima di averlo fatto, anche se diceva semplicemente “non ho capito niente” o “questo libro non mi piace”. Non era questo il problema: non dovevo essere il bambino che nella fabbrica di cioccolato ne prende troppo, abboffandosi. Ho appreso in questo modo un certo metodo e il rispetto dell’opera. A un’opera si deve attenzione, e l’attenzione fa pensare (…). Era una pedagogia. Talvolta mi spazientivo, mi irritavo: volevo il libro successivo. Su questo punto mio padre era molto rigido.

Trascrivere di tanto in tanto una pagina, tenere qualche nota di fine lettura: ecco i tuoi compiti per casa. Funzioneranno? Non ne ho idea, perché sono stato sempre troppo pigro o troppo impaziente per mettere in pratica i miei consigli. Ma già che razzolo così male, consentimi almeno il lusso di predicare bene.

Il bibliopatologo risponde è una rubrica di posta sulle perversioni culturali. Se volete sottoporre i vostri casi, scrivete a g.vitiello@internazionale.it

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