26 settembre 2014 15:35

“Dobbiamo ammettere che l’Afghanistan non sarà un posto perfetto e che non è compito degli Stati Uniti renderlo tale”, ha dichiarato Barack Obama a maggio. Il presidente statunitense ha ragione. L’Afghanistan è una società decisamente imperfetta sotto ogni aspetto: politica, economia, sicurezza e diritti umani. Ma non è nemmeno una causa persa.

Il presidente Hamid Karzai, che dopo l’invasione americana del 2001 era stato posto alla guida del paese e aveva poi vinto le discusse elezioni del 2004 e del 2009, ha lasciato l’incarico lunedì scorso, anche se in realtà non si è allontanato più di tanto (la sua nuova residenza privata si trova alle spalle del palazzo presidenziale). Prima di andarsene, però, Karzai ha trovato il tempo di mordere per l’ultima volta la mano che lo ha nutrito per tanto tempo.

“La guerra in Afghanistan fa gli interessi degli stranieri”, ha dichiarato. “Gli afgani di entrambi gli schieramenti sono le vittime di questa guerra”. L’ambasciatore statunitense James Cunnigham ha risposto che “le dichiarazioni inappropriate [di Karzai] screditano tutti i sacrifici che gli statunitensi hanno fatto per questo paese.” Ma ovviamente Karzai ha ragione.

Le opinioni espresse da Karzai, per quanto poco diplomatiche, sono infatti semplici manifestazioni di buon senso. Gli Stati Uniti non hanno invaso il paese per portare democrazia, ricchezza e femminismo all’insofferente popolo afgano. Lo hanno fatto perché alcuni tra i principali artefici dell’11 settembre sono stati autorizzati a stabilirsi nel paese da esponenti dei taliban, che ne condividevano l’ideologia religiosa.

Si può dire che adescare l’esercito statunitense nel pantano di una lunga guerriglia in Afghanistan, che avrebbe spinto milioni di musulmani tra le braccia di Al Qaeda, era precisamente l’obiettivo che Osama Bin Laden intendeva perseguire con gli attacchi dell’11 settembre. Gli Stati Uniti sono semplicemente caduti nella sua trappola.

In ogni caso, nonostante i repentini cambi di giustificazioni per il “mantenimento della rotta” in Afghanistan adottati da Washington negli anni, la motivazione principale degli americani si è basata sulla percezione (condivisibile o meno) che l’identità di chi controllava l’Afghanistan avesse un’importanza capitale per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti .

In Afghanistan più di 1.400 soldati statunitensi (insieme a 800 britannici, 150 canadesi e tutti gli altri) sono morti per affermare la particolare visione di Washington di come garantire la propria sicurezza. Era l’unico modo per giustificare davanti al popolo americano 13 anni di presenza militare in Afghanistan.

Ma questa lunga occupazione è stata un bene anche per l’Afghanistan? La risposta dipenderà dalla stabilità e dal successo di quel mostro a due teste che è il nuovo governo che sta per insediarsi a Kabul.

Karzai ha consegnato le redini del paese a due uomini molto diversi, che negli ultimi cinque mesi hanno rivendicato entrambi la vittoria alle presidenziali dello scorso aprile. Lo scrutinio è stato molto più trasparente rispetto alle due elezioni che hanno confermato Karzai, ma è stato comunque molto sospetto.

Il primo turno, a cui si sono presentati undici candidati, ha visto l’affermazione di Abdullah Abdullah con il 45 per cento dei voti. Al secondo posto si è piazzato Ashraf Ghani, con appena il 31 per cento delle preferenze. Al secondo turno la situazione è cambiata radicalmente. Abdullah ha addirittura perso due punti, mentre Ghani ha quasi raddoppiato i voti raggiungendo il 56 per cento. A quanto pare i miracoli esistono ancora.

A destare ulteriori sospetti c’è il fatto che in alcuni distretti favorevoli a Ghani il numero di elettori è triplicato tra il primo e il secondo turno. Anche per questo Abdullah ha gridato allo scandalo, e la nomina del nuovo presidente è stata rinviata più volte mentre le schede venivano “verificate” da una commissione elettorale scelta da Karzai.

Stabilire con certezza chi avesse vinto era sostanzialmente impossibile, e dopo mesi di polemiche e rinvii si è arrivati a un accordo. Ghani, ex funzionario della Banca mondiale, sarà il nuovo presidente. Abdullah, ex combattente della resistenza contro l’occupazione sovietica degli anni ottanta e in seguito ministro degli esteri di Karzai, avrà sostanzialmente le mansioni di un primo ministro.

In altre parole siamo davanti a una spartizione afgana del potere tra i diversi gruppi etnici del paese, in classico stile afgano. Ghani si assicurerà che i pashtun ricevano la maggior parte dei posti più ambiti senza dimenticarsi degli uzbeki. Abdullah si prenderà cura dei tagiki e degli hazara. Ma rispetto ai vecchi signori della guerra afgani e ai fanatici taliban, entrambi sono un netto passo avanti.

Alla fine il nuovo governo e il nascente sistema democratico afgano potrebbero sopravvivere e dimostrarsi adeguati alla realtà del paese. Dopo trent’anni di occupazione russa e statunitense, qualche milione di afgani ha avuto un assaggio di come si gestisce il potere nelle società post-tribali.

L’Afghanistan è tuttora una società tribale, dunque la divisione dei poteri su base etnica potrebbe rappresentare una soluzione migliore rispetto alla politica del “chi vince piglia tutto”. Se gli Stati Uniti e i loro alleati non taglieranno improvvisamente gli aiuti che tengono in piedi la baracca, l’Afghanistan potrebbe quantomeno evitare di rivivere la disastrosa guerra civile scoppiata nel 1992 dopo il ritiro dell’Armata rossa e l’interruzione degli aiuti da Mosca.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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