27 gennaio 2015 17:09

Durante la sua recente visita a Londra, il primo ministro turco Ahmet Davutoglu ha rivendicato davanti ai mezzi d’informazione occidentali il ruolo fondamentale svolto da Ankara nella guerra contro lo Stato islamico, l’organizzazione terrorista emersa nel nord della Siria e in Iraq. La Turchia sta facendo il possibile, anche se “non possiamo schierare le nostre truppe lungo tutto il confine”, si è giustificato Davutoglu.

La porosa frontiera turco-siriana è diventata motivo di frizioni con gli alleati occidentali di Ankara, che accusano il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan di permettere intenzionalmente il passaggio di reclute e rifornimenti destinati allo Stato islamico nella speranza che i ribelli sunniti (ormai quasi tutti jihadisti) rovescino la minoranza sciita al potere in Siria. Erdoğan non è certo un terrorista, ma resta un devoto sunnita militante.

In ogni caso le motivazioni del presidente turco sono irrilevanti, perché la Turchia non è materialmente in grado di schierare le sue truppe lungo tutti gli 820 chilometri del confine con la Siria. O almeno questo è quello che sostiene Davutoglu, convinto che solo un nemico della Turchia (o qualcuno che non conosce la matematica) potrebbe affermare il contrario.

Io non sono un nemico della Turchia, ma sono in grado di fare qualche calcolo elementare. Per pattugliare l’intero confine turco-siriano a intervalli di dieci metri (con una mitragliatrice ogni cinquanta metri) servirebbero 82mila soldati. L’esercito turco conta 315mila effettivi, senza considerare la marina e l’aeronautica.

Forse Ankara non ha abbastanza mitragliatrici, ma la Turchia non è certo un paese povero e le mitragliatrici sono abbastanza economiche sul mercato internazionale. Magari potrebbe usare una soluzione diversa, come una recinzione e rilevatori di movimento. In ogni caso il requisito essenziale sono i soldati, e nemmeno troppo specializzati. L’esercito turco ha altri compiti, ma niente di prioritario in questo momento.

Anche presupponendo una rotazione frequente degli effettivi lungo il confine, basterebbe meno della metà dei soldati turchi per chiudere la frontiera e impedire ai combattenti stranieri di attraversarla. Forse qualche jihadista riuscirebbe comunque a passare, ma la stragrande maggioranza di loro no. La verità è che Ankara non ha chiuso il confine semplicemente perché non vuole farlo.

L’interruzione del flusso di volontari jihadisti non cambierebbe radicalmente la situazione sul campo, perché il gruppo Stato islamico usa gli stranieri soprattutto come carne da macello. Ma il punto è un altro: la Turchia non si sta davvero impegnando nella lotta contro i jihadisti, anzi sta chiaramente aiutando i terroristi nella speranza che i sunniti vincano in Siria, anche se ufficialmente fa parte della “coalizione dei volenterosi” contro il gruppo terrorista.

Lo stesso vale per l’Arabia Saudita. Riyadh ha mandato alcuni aerei a bombardare le postazioni dello Stato islamico, sta cercando di impedire ai suoi cittadini di unirsi ai jihadisti e non ha alcuna intenzione di permettere la diffusione dell’ideologia dello Stato islamico all’interno dei suoi confini. Proprio per questo motivo il governo saudita ha cominciato a costruire un muro di 900 chilometri lungo il confine con l’Iraq, per impedire ai jihadisti di entrare nel paese.

Allo stesso tempo, però, non c’è troppa differenza tra la dottrina sunnita wahhabita promossa in Arabia Saudita e la teoria “takfiri-salafita” sposata dai militanti dello Stato islamico. I cittadini sauditi sono stati tra i maggiori finanziatori dello Stato islamico, e fino a poco tempo fa Riyadh faceva finta di niente. Ancora oggi l’Arabia Saudita non vuole la sconfitta dello Stato islamico se questo significa che Assad resterà al potere in Siria.

Passiamo all’Iran. In Iraq, dove lo Stato islamico controlla metà del territorio e minaccia il potere della maggioranza sciita, Teheran e gli Stati Uniti combattono (quasi) fianco a fianco per difendere il governo di Haidar al Abadi. I due paesi non si parlano, ma ognuno comunica all’Iraq gli obiettivi dei propri attacchi in modo da evitare incidenti.

Ma le cose cambiano nella vicina Siria. L’Iran ha inviato truppe, armi e denaro per difendere Assad, mentre gli Stati Uniti puntano ancora a rovesciarlo. Entrambi i paesi considerano lo Stato islamico (che controlla ormai un terzo del territorio siriano) come un nemico, ma Washington crede ancora di poter creare un esercito di sunniti “moderati” per cacciare Assad.

La Russia, naturalmente, continua a fornire ad Assad armi, denaro e sostegno diplomatico. Tuttavia Mosca, nonostante abbia i suoi bei problemi con i ribelli jihadisti nel nord del Caucaso, non partecipa attivamente alla campagna militare contro lo Stato islamico, perché lo scontro con Washington sull’Ucraina è troppo aspro per permettere qualsiasi collaborazione.

Ricapitolando: le potenze che si oppongono allo Stato islamico non hanno una strategia chiara e non sono disposte a collaborare tra loro. Per questo il gruppo Stato islamico sopravviverà almeno per qualche anno, nonostante l’orrore che infligge a persone innocenti. Forse potrebbe addirittura espandersi ancora, anche se la fine dell’assedio di Kobane dimostra che i jihadisti non sono certo inarrestabili.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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