24 aprile 2015 10:12

C’è stato un tempo in cui le grandi operazioni militari avevano nomi oscuri in modo che i piani non fossero chiari al nemico. Il piano dei tedeschi per l’invasione della Francia nel 1940 si chiamava Fall gelb (Caso giallo), mentre il contrattacco statunitense nella guerra di Corea, che permise di riprendersi Seoul, si chiamava Operazione cromite. Ma poi hanno cominciato a occuparsene i responsabili delle pubbliche relazioni.

Entro l’inizio del ventunesimo secolo sono arrivati nomi drammatici come Tempesta nel deserto (la guerra del Golfo del 1991) e idealistici come Iraqi freedom. È stato quindi naturale, quando l’Arabia Saudita ha deciso di bombardare i ribelli houthi che avevano preso il controllo della maggior parte dello Yemen, chiamare l’operazione Decisive storm (Tempesta decisiva). Suona bene e dà un’idea di determinazione, ma anche di burrasca.

Il 21 aprile, quando il portavoce dell’esercito saudita Ahmed al Asiri ha annunciato che il suo paese avrebbe interrotto i bombardamenti dopo un mese e 2.415 raid, ha naturalmente sostenuto che si trattava di una vittoria decisiva, aggiungendo che l’aviazione ha distrutto l’80 per cento delle “linee di trasporto” (colloquialmente note come “strade”) degli houthi, neutralizzando anche tutti i missili balistici dei ribelli.

Missili balistici? Sì, perché gli houthi avevano conquistato una base vicino a Sanaa dove si trovavano alcuni missili terra-terra Scud B, fabbricati nel 1965 e con una gittata di trecento chilometri. È comunque probabile che, dopo mezzo secolo di manutenzione yemenita, i missili non fossero in grado di volare e che in ogni caso non avrebbero potuto superare i confini del paese.

A ogni modo, l’aeronautica saudita li ha fatti fuori e possiamo quindi dormire tutti sonni più tranquilli adesso. Un miliardario saudita ha perfino promesso di regalare a ciascuno dei cento piloti sauditi coinvolti nei bombardamenti una Bentley (una specie di Rolls-Royce dei poveri) come ringraziamento per i loro sforzi.

Il generale Al Amiri ha inoltre dichiarato che le milizie houthi non sono più in condizione di nuocere ai civili. In realtà non ha proprio detto così, ma dal suo tono sembrava che lo Yemen fosse ormai in pace, che tutti gli houthi se ne fossero tornati a casa nel loro territorio tribale nel nord del paese e che il legittimo presidente dello Yemen fosse tornato sano e salvo nella capitale Sanaa.

Qualcosa però non quadra. Il legittimo presidente è ancora in esilio in Arabia Saudita. E gli houthi non sono tornati a casa, ma controllano la maggior parte del territorio yemenita fino ad Aden. Intanto il resto del paese è ormai sotto il controllo di Al Qaeda nella penisola araba (Aqpa), fatta eccezione per le aree controllate dal suo rivale islamista, l’ancor più crudele gruppo Stato islamico. Come si fa a parlare di vittoria?

Provate a mettervi nei panni del povero generale Al Asiri. Lavora per il governo e doveva pur dare qualche buona notizia. Ma la scena che più di tutte dà un’idea della situazione si è svolta in uno studio televisivo di Sanaa, dove un presentatore yemenita stava mostrando un filmato del discorso di Al Asiri. Quando il presentatore è riapparso sullo schermo, riprendendo in mano i fogli delle notizie, non riusciva a dire niente. Ci stava provando, ma era in preda a un attacco di riso.

Dopo vari tentativi di soffocare le risate e di farsi aria sventolandosi in faccia i fogli, ha appoggiato la testa sulla scrivania e si è lasciato completamente andare. A quel punto anche le persone dietro alla telecamera hanno cominciato a ridere. Nel linguaggio dei responsabili delle pubbliche relazioni questo si definisce un “misero fallimento”. Quando cerchi di convincere il tuo pubblico che la tua débâcle era in realtà un’astuta mossa tattica, non vuoi certo che questo scoppi in una risata isterica.

Che cosa ha reso l’Arabia Saudita così cieca da lanciare questa campagna aerea destinata dall’inizio al fallimento e a convincere praticamente tutti gli altri stati arabi sunniti a fornire aerei? Perlopiù si è trattato di pura e semplice paranoia. Le autorità saudite si sono convinte che gli “sciiti” (espressione che solitamente designa l’Iran) siano sul piede di guerra, pronti a fagocitare tutti i territori arabi dove possono trovare altri sciiti. Dal momento che gli houthi sono sciiti, ecco spiegato il loro ragionamento.

All’inizio dei bombardamenti si è parlato molto del fatto che l’Iran avrebbe fornito armi agli houthi, e i sauditi sono riusciti a convincere quasi tutti i paesi arabi sunniti a fornire qualche aereo per la campagna. Alla fine il generale Al Asiri non ha fatto alcun cenno agli iraniani. Come se fossero tornati tutti a casa, anche se sarebbe stato difficile partire con tutti gli aeroporti chiusi e le coste sottoposte a blocco navale. O forse non avevano semplicemente mai messo piede nel paese.

Paesi più grandi hanno fatto errori più gravi pagando un prezzo relativamente basso, come gli Stati Uniti quando hanno invaso l’Iraq. Neanche l’Arabia Saudita pagherà caro. Sembra che a Riyadh, le persone dotate di senno abbiano ripreso il controllo e abbiano spento la macchina militare. La temuta invasione di terra non c’è stata, lasciando il posto a una tranquilla transizione verso l’operazione Restore hope (riportare la speranza), ovvero l’aiuto umanitario che avrebbero fornito dopo la vittoria, qualora avessero vinto.

L’Arabia Saudita sembra essersi tirata fuori e, per come vanno le cose, poteva andare peggio. Solo un consiglio: smettete di usare questi nomi all’americana per le operazioni militari. Gli Stati Uniti hanno cominciato a usarli nel momento in cui hanno cominciato a combattere guerre stupide e a perderle.

Ultim’ora: il 22 aprile i sauditi hanno ripreso a bombardare, ma solo un pochino, hanno dichiarato.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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