09 marzo 2016 13:31

Aprendo l’assemblea nazionale del popolo a Pechino, il 5 marzo, il primo ministro Li Kegiang ha fissato l’obiettivo di crescita della Cina per il prossimo anno al 6,5-7 per cento, il più basso degli ultimi due decenni. Appena due anni fa aveva dichiarato che un tasso di crescita del 7 per cento era il minimo accettabile ma ha dovuto rimangiarsi le parole. Ormai il suo potere è molto limitato.

L’uomo che sta prendendo in mano tutto quanto, il presidente Xi Jinping, sta trasformando il paese in un regime personalistico, cosa che non accadeva dai tempi di Deng Xiaoping negli anni ottanta. La “leadership collettiva” degli ultimi decenni è diventata ormai una finzione e il culto della personalità di Xi è vigorosamente promosso dai mezzi d’informazione di stato.

Xi ha anche rotto la tregua tra le due principali correnti all’interno del Partito comunista cinese, quella dei “principini rossi” e quella dei “populisti”. Figlio di un eroe rivoluzionario del Partito comunista diventato poi vicepremier, Xi è un principino rosso fino al midollo. Il suo stile autoritario e centralizzatore è tipico della sua stirpe di privilegiati.

I contrasti tra le due fazioni si sono inaspriti perché l’economia cinese si sta avviando alla crisi

I populisti, come Li Keqiang, sono solitamente persone di umili origini, cresciute nell’entroterra e non nelle ricche città costiere. La loro ascesa è dovuta più ai loro meriti che alle loro amicizie, e sono più sensibili ai bisogni di contadini, lavoratori migranti e poveri delle città. La maggior parte di loro s’è fatta strada attraverso la Lega della gioventù comunista, i cui componenti sono noti come tuanpai, cioè chi ha fatto parte della Lega della gioventù comunista.

Spaventate dalle proteste non violente che hanno messo in discussione il monopolio del potere del Partito comunista nel 1989, per quasi tre decenni queste due fazioni si sono attentamente spartite il potere, senza mai attaccarsi in pubblico. Adesso Xi ha rotto il patto di non aggressione, autorizzando i mezzi d’informazione a non risparmiare gli attacchi aperti alla “mentalità” della Lega della gioventù comunista.

I contrasti tra le due fazioni si sono inaspriti perché l’economia cinese si sta avviando alla crisi. Nessuna delle due parti ha una strategia convincente per evitarla, ma entrambe sono giunte alla conclusione che lo stile politico dell’altra (l’autoritarismo dei “principini rossi” e il populismo dei tuanpai) peggiorerà le cose.

Dopo il 2008 la Cina ha costruito un nuovo grattacielo ogni cinque giorni

La dittatura del Partito comunista si fonda su un tacito patto con la popolazione: il partito garantisce livelli di vita in costante ascesa e, in cambio, la popolazione non mette in discussione la sua autorità. Ma nessuna economia può crescere del 10 per cento annuo per sempre, o anche al tasso attualmente dichiarato del 6,5-7 per cento.

In realtà il tasso di crescita della Cina è crollato circa sette anni fa, nel 2009, ma il calo è stato mascherato finora da una valanga d’investimenti alimentati dal debito. Mentre buona parte del mondo entrava in una pesante recessione dopo la crisi finanziaria del 2008, il regime cinese ha mantenuto artificialmente alto il tasso di crescita aumentando la quota di pil dedicata agli investimenti infrastrutturali fino a un incredibile 50 per cento.

Nei cinque anni successivi la Cina ha costruito un nuovo grattacielo ogni cinque giorni. Ha costruito più di trenta nuovi aeroporti, sistemi di metropolitana in 25 città, i tre più lunghi ponti del mondo, più di diecimila chilometri di ferrovie ad alta velocità, e quarantamila chilometri d’autostrade. E nelle varie città sono spuntate decine di migliaia di palazzi residenziali a molti piani.

Ma i nuovi palazzi rimangono per lo più vuoti, come buona parte delle autostrade. Si tratta d’investimenti che hanno creato posti di lavoro all’epoca, ma che per anni non produrranno un adeguato ritorno economico, sempre ammesso che questo accada. E per finanziare tutto ciò il paese ha permesso che il debito crescesse a dismisura, passando dal 125 per cento circa del pil nel 2009 al 220 per cento di oggi.

Il rinnovato culto della personalità

Tutti questi investimenti sono stati calcolati all’interno delle statistiche sul pil, ma circa metà di esso, e forse anche oltre, è rappresentato da debiti insoluti che prima o poi dovranno essere dichiarati irrecuperabili. Vuole dire che la crescita del pil cinese negli ultimi cinque anni è stata in realtà del 2 per cento circa, non del 7 o 8 per cento.

La crisi può essere nascosta ancora un altro po’ stampando moneta, come sta facendo il regime. Ma questo significa spingere verso il basso la valuta cinese, lo yuan, che è attualmente sopravvalutato del 15-20 per cento. La svalutazione permetterebbe un rilancio temporaneo delle esportazioni cinesi, ma potrebbe anche scatenare una guerra commerciale mondiale che affonderebbe le economie di tutti i paesi.

Per questo oggi la Cina sta spendendo novanta miliardi di dollari al mese sui mercati di cambio internazionali in modo da mantenere alto il valore dello yuan. Ma anche con le sue immense riserve di valuta straniera, si tratta di una politica insostenibile a lungo termine. Prima o poi ci sarà un “brusco atterraggio” e la stessa sopravvivenza del regime potrebbe essere in pericolo.

Non ci sono prove che il presidente Xi Jinping abbia una strategia migliore di quella del suo rivale Li Keqiang per gestire questa crisi, ma è chiaro che la tempesta si sta avvicinando e quindi si prepara al peggio. Dal suo punto di vista, questo significa assumere poteri assoluti e costruire un culto della personalità che in Cina non s’è più visto dai tempi della scomparsa di Mao Zedong. Sicuramente Xi non è un megalomane sanguinario come Mao, ma è chiaramente convinto di aver bisogno di un controllo totale per superare la tempesta senza naufragare.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it