07 ottobre 2016 13:04

Il presidente Juan Manuel Santos non era tenuto a organizzare un referendum che ratificasse l’accordo volto a mettere fine a sessant’anni di guerra tra il governo colombiano e le Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc). La consultazione è stata organizzata perché sia Santos sia i dirigenti delle Farc ritenevano che una vittoria al referendum avrebbe reso più difficile, per qualsiasi successivo governo, l’annullamento di tale accordo. Ma hanno perso il referendum.

Nel plebiscito del 2 ottobre, poco più di un terzo degli elettori colombiani (37 per cento) si è degnato di andare alle urne e il fronte del no ha vinto per una strettissima maggioranza con il 50,2 per cento. Il fronte del sì, tuttavia, ha ottenuto ampie maggioranze nelle zone rurali del paese, devastate dalla lunga guerra.

Nelle zone di guerra la maggioranza delle persone desiderava solo che i massacri finissero, ma nelle zone urbane, più sicure, la gente poteva permettersi il lusso di chiedersi se fosse moralmente giustificabile amnistiare i ribelli che avevano ucciso così tante persone. E come nella maggior parte dei referendum, molte persone hanno sfruttato l’occasione per un voto di protesta contro il governo in generale. E così l’accordo di pace è naufragato.

Perché correre il rischio?
Non c’è un piano b. “Se il popolo dirà no, il processo si arresta e non ci saranno risultati”, aveva affermato il principale negoziatore governativo, Humberto de la Calle, al giornale colombiano El Tiempo. “Una vittoria del no avrà come conseguenza la guerra”, ha dichiarato l’ex presidente, Cesar Gaviria, che ha guidato la campagna per il sì.

Forse è un’affermazione troppo pessimistica, poiché i dirigenti delle Farc vogliono davvero mettere fine alla guerra. “Se il no vince, non significa che tutto il processo debba andare a rotoli”, aveva dichiarato a fine giugno il negoziatore dei guerriglieri Carlos Antonio Lozada. “La legge non ci obbliga a continuare una guerra così dolorosa”.

Ma senza la protezione legale dell’accordo di pace, molti dei cinquemila combattenti delle Farc esiteranno a deporre le armi e uscire dalla giungla. Perché allora Santos ha corso il rischio di un referendum?

Per un governo è facile formulare un quesito referendario che ottenga la risposta desiderata

Né la costituzione colombiana né quella di qualsiasi altro paese dice che gli accordi di pace che mettono fine alle guerre civili debbano essere ratificati tramite referendum (le costituzioni nazionali non prevedono neppure la possibilità di una guerra civile). E quando le guerre civili finiscono, la maggior parte dei governi riconosce che i sentimenti sono ancora troppo intensi per sottoporre concessioni come un’amnistia per tutti i combattenti a un voto popolare.

Alla fine della battaglia antiapartheid in Sudafrica, Nelson Mandela ha vinto le prime elezioni a suffragio universale del paese, ma non ha organizzato un referendum per chiedere agli elettori di approvare l’accordo che aveva negoziato con il regime della minoranza bianca. Al suo posto ha creato la Commissione per la verità e la riconciliazione, di fronte a cui coloro che avevano commesso atrocità dovevano ammettere i loro crimini, ma non erano puniti.

Nessun referendum è stato inoltre organizzato per ratificare il Good friday agreement del 1998 che ha effettivamente messo fine a una guerra civile di trent’anni in Irlanda del Nord. Nessuno ha chiesto al popolo libanese di approvare gli accordi diplomatici di Taif nel 1989, con cui si è conclusa la guerra civile locale, ed è stato il parlamento libanese, e non un referendum, ad approvare una legge d’amnistia.

Il referendum è un’arma spuntata anche quando la questione dibattuta è meno controversa e carica d’emozioni di una guerra civile. Nel recente referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea, per esempio, buona parte del 51,9 per cento di persone che ha votato a favore dell’uscita si è in realtà espressa contro l’immigrazione di massa (metà della quale non proviene dall’Ue) e contro l’impatto della globalizzazione sui loro livelli di vita.

Senza valore di legge
Per un governo è inoltre facile formulare un quesito referendario che ottenga la risposta desiderata. Nel referendum ungherese (che si è svolto lo stesso 2 ottobre) sull’accettazione o meno di alcuni dei rifugiati arrivati nell’Unione europea, per esempio, la domanda era: “Volete che l’Unione europea sia in grado di disporre l’invio forzato di cittadini non ungheresi in Ungheria anche senza l’approvazione dell’assemblea nazionale?”. Tanto valeva chiedere: “Volete rinunciare alla sovranità dell’Ungheria e permettere all’Ue d’inviarci dei terroristi?”.

Il primo ministro ultranazionalista Viktor Orbán voleva un no e lo ha ottenuto, da parte del 98 per cento di chi è andato a votare (anche se oltre metà dell’elettorato non si è recato alle urne, probabilmente disgustato dall’evidente tentativo di Orbán di manipolare l’opinione pubblica).

E poi c’è stato il referendum greco del luglio 2015, quando il primo ministro Tsipras ha chiesto ai cittadini se avessero dovuto accettare le dure condizione imposte dall’Ue per salvare, una volta di più, la Grecia da una crisi del debito. Voleva un no e l’ha ottenuto (61 per cento no e 39 per cento sì), ma dieci giorni dopo ha ignorato il risultato, accettando condizioni ancor più dure da parte dell’Ue, e cavandosela senza serie conseguenze.

I referendum sono spesso consultivi e non hanno valore di legge. È raro che abbiano un esito che non sarebbe possibile ottenere con un semplice voto in un parlamento elettivo, a un centesimo del costo. E un parlamento democraticamente eletto è molto più efficace nel porre e dare una risposta alle domande giuste.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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