23 marzo 2016 15:45

La simultaneità di spazi e tempi diversi è la caratteristica più travolgente del mondo globale, e siamo ormai abituati tutti a praticarla navigando in rete tra eventi, storie, continenti, lingue, fusi orari diversi. Ma raramente è capitato che questa sincronicità dell’asincronico, come la chiama qualcuno, si sia mostrata com’è avvenuto con la simultaneità dell’attentato di Bruxelles e del viaggio di Obama a Cuba. Né basta a renderla l’appello all’unità del mondo intero contro “il flagello del terrorismo” che Obama ha premesso al suo discorso ai cubani, volgendo dai Caraibi lo sguardo all’Europa. Sotto quelle due immagini simultanee del presidente statunitense sul palco del Gran teatro dell’Avana e dell’aeroporto martoriato di Bruxelles c’è una contrazione del tempo e una stratificazione della storia che racconta in un attimo più di mezzo secolo.

Obama è a Cuba per seppellire l’ultimo residuo della guerra fredda. L’ha detto il giorno prima nell’incontro con Raúl Castro, lo ripete al popolo della “piccola isola che è stata capace di scuotere il mondo”: è una storia finita, quella cominciata nell’anno della sua nascita, adesso è arrivato il momento di aprirsi al futuro e alla riconciliazione. Tocca tutte le corde giuste per parlare alla testa e al cuore dei cubani, a partire dall’origine comune a tutti gli americani in un mondo colonizzato dall’Europa. Li rassicura che saranno loro e solo loro a decidere il futuro di Cuba, ripete che l’apertura di cui li si fa portatori non cancella una storia di differenze: chiama così, “differenze” da mettere in reciproco ascolto, l’abisso che nel novecento ha separato l’isola della rivoluzione del Che e di Fidel dalla grande potenza capitalista e imperialista. Riconosce che quanto a sanità, istruzione, diritti sociali è lui ad avere qualcosa da imparare da Cuba, ma ribadisce il punto su democrazia e diritti civili: la democrazia non cancella disuguaglianze, ingiustizie, razzismo, ma consente di continuare a lottare per migliorare le cose, e nel dissenso, che le dittature non consentono, c’è il sale della lotta. Gli applausi confortano le sue parole; sulle facce il sorriso è più largo della diffidenza. Un altro muro, l’ultimo, cade, senza sangue, senza statue decapitate, non con l’umiliazione ma con il riconoscimento del nemico che fu. Sí, se puede.

Cambio di scena, Bruxelles: sangue, dolore e lacrime, come a Parigi lo scorso novembre, come chissà dove il mese prossimo. Quando Obama comincia a parlare all’Avana, il flusso delle notizie dalla capitale dell’Unione europea arriva già da sette ore, insieme al flusso dei commenti, anch’esso uguale a quattro mesi fa e prevedibilmente al mese prossimo. Colpa dell’intelligence, colpa dell’islam, colpa dei migranti, colpa delle operazioni scellerate fatte o programmate dall’Europa in Medio Oriente e in Nordafrica, colpa dell’inerzia dei governi e dell’inesistenza della Ue: l’Europa si disfa in questo stillicidio quotidiano delle colpe, vere o presunte, che alimenta l’impotenza. Qui i muri non cadono, si alzano, sui confini esterni e su quelli interni, e impediscono l’immaginazione, prima che la progettazione, di qualunque via d’uscita.

Il mondo è uno, e la storia segue spesso fili che la ragione non prevede. L’Europa di oggi sconta le responsabilità, pesantissime, dell’America di George W. Bush nella risposta all’11 settembre, con le conseguenze che Obama ha ereditato e da cui non è riuscito a emanciparsi del tutto. E l’11 settembre era stato a sua volta il primo annuncio che dopo la fine della guerra fredda un’altra guerra, asimmetrica e senza dispositivi di deterrenza possibili, avrebbe di nuovo diviso il mondo unificato dalla caduta del muro di Berlino. Quindici anni dopo l’Europa vive in proprio la ferita che allora squarciò Manhattan. Ma mentre sull’altra sponda dell’Atlantico quella ferita ha prodotto i suoi anticorpi, non ultimo un presidente afroamericano capace di guardare il mondo postcoloniale da una diversa prospettiva, in Europa il tempo sembra essere passato invano, o scorrere sospingendola all’indietro.

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