11 settembre 2016 11:57

Commemorando per l’ottava e ultima volta nella sua presidenza le vittime degli attentati dell’11 settembre di quindici anni fa, Barack Obama ha fatto appello ai “valori costitutivi” dell’identità americana: pluralità, apertura, welcoming senza discriminazioni di razza, di sesso, di etnia, di fede religiosa. Solo restando fedeli a questi valori, ha aggiunto, “porteremo avanti l’eredità di quelli che abbiamo perduto”. Al netto di una lettura elettoralistica del suo discorso, evidentemente volto anche a marcare un discrimine netto rispetto ai valori di segno contrario che muovono la retorica e i programmi di Donald Trump, l’associazione fra l’eredità delle vittime dell’11 settembre e l’etica dell’apertura e della tolleranza sigilla degnamente un doppio mandato presidenziale contrassegnato dalla volontà di portare lo spirito pubblico americano fuori dalla scia di vendetta, ritorsione e revanchismo che avevano caratterizzato la reazione dell’amministrazione Bush agli attentati di quella limpida e fatale giornata di settembre di quindici anni fa.

Che Obama, e con lui la società americana, siano riusciti definitivamente o solo temporaneamente in questa impresa è una delle poste in gioco, se non “la” posta in gioco, della corsa alla Casa Bianca che si concluderà il 7 novembre. In attesa del responso, mai come quest’anno è opportuno guardare all’anniversario dell’11 settembre da questa sponda dell’oceano, con occhi europei. Più d’un paragone, intanto, sorge spontaneo: per fare un esempio, fra l’appello di Obama ai valori fondamentali americani e quello recente di Valls ai valori fondamentali francesi, evocati nella fattispecie per combattere il burkini. O per farne un altro, fra il muro programmato da Trump ai confini con il Messico e quello già deciso dal governo inglese a Calais. Due tra i molti segnali che l’onda lunga dell’11 settembre si sta abbattendo sulle coste europee perfino con maggiore violenza che su quelle americane. E forse con meno anticorpi.

Dall’attentato a Charlie Hebdo in poi, passando per il Bataclan e per la lunga scia del terrore che ha insanguinato l’estate del vecchio continente, i roboanti e ricorrenti titoli su “l’11 settembre europeo” dicono solo metà della verità: l’Europa sta sperimentando adesso quel ventaglio di problemi e di angosce che quindici anni fa ha fatto irruzione sulla scena mondiale, ma da cui il vecchio continente ha creduto a lungo di essere immune delegandone il vissuto e la soluzione agli Stati Uniti. È questa la ragione per cui tutto il dibattito europeo sul terrorismo appare viziato, passatemi il gioco di parole, da uno stupore stupefacente, e da una ripetizione irritante.

Lo stupore stupefacente viene da lontano. Qualcuno forse ricorderà la diatriba sull’occidente diviso fra Marte (gli Stati Uniti) e Venere (l’Europa) che impegnò dopo l’11 settembre intellettuali e opinionisti sulle due sponde dell’Atlantico. Una diatriba fatua, non solo sul versante di chi da posizioni guerrafondaie difendeva le virtù di Marte contro la mollezza di Venere, ma anche sul versante opposto di chi difendeva la cautela di Venere contro l’irruenza di Marte sottintendendo, non senza una certa spocchia, un giudizio autoevidente sulla superiorità del modello europeo – pace e stato di diritto, integrazione universalistica e stato sociale – rispetto a quello americano – imperialismo e interventismo, eccezionalismo e sospensione facile delle garanzie, multiculturalismo ghettizzante.

Quella spocchia era molto malriposta, come i fatti si sono incaricati di dimostrare nel quindicennio successivo. Durante il quale sono stati semmai gli Stati Uniti a indicare, con l’elezione del primo presidente afroamericano, meticcio e riluttante a indossare i panni del gendarme del mondo, una via d’uscita dalla risposta identitaria e nazionalista, securitaria e guerrafondaia di George W. Bush all’11 settembre. Mentre l’Europa non elaborava alcuna visione alternativa del Medio Oriente e si accodava a ranghi sparsi e subalterni a tutte le guerre in corso; e al suo interno, lungi dal presidiare il famoso “modello europeo”, consentiva che venisse smantellato pezzo per pezzo dai diktat neoliberali dell’Unione, e lungi dal tenere alta la bandiera dell’universalismo con nuove e preventive politiche di accoglienza e integrazione erigeva muri, si chiudeva a fortezza, emetteva editti contro l’uso del velo e faceva della paura degli invasori, terroristi e non, la propria retorica costitutiva.

Già stupefacente quindici anni fa (e già smentita, peraltro, dalle stragi di Madrid e di Londra del 2004 e 2005), l’illusione europea di poter restare al riparo dall’attacco del terrorismo internazionale suona dunque oggi come il segnale di un enorme e colpevole ritardo accumulato per quindici lunghi e decisivi anni. Non solo sul piano politico e geopolitico, ma anche, e forse ancora più colpevolmente, sul piano culturale. E qui vengo alla ripetizione irritante.

L’11 settembre non fu solo un evento sconvolgente per l’ordine mondiale. Fu anche, come si disse allora, un enorme evento filosofico. Mostrò la senescenza delle categorie consolidate del pensiero politico di fronte a una globalizzazione che sconvolgeva le stesse coordinate spaziali e temporali costitutive della modernità, e tutte le categorie – sovranità, identità, logica simmetrica amico-nemico – costitutive dell’ordine politico moderno. L’interpretazione dell’attentato alle Torri gemelle in termini di scontro di civiltà, con l’islam all’attacco dell’occidente che domandava una ritorsione uguale e contraria, fu certamente la lettura mainstream che ispirò la reazione americana in Afghanistan e in Iraq, ma non fu l’unica, e fin da subito si rivelò, sulla base di una lettura attenta dell’evento, la più fallace: la forma, gli effetti, perfino l’estetica dell’attentato ne suggerivano un’altra.

Le quasi tremila vittime, di oltre 60 diverse nazionalità, dicevano che l’attacco non era all’America ma alle promesse cosmopolitiche della globalizzazione. La sceneggiatura hollywoodiana dei due aerei che tagliavano le Torri gemelle diceva che tutto, dalla tecnologia all’immaginario dell’attentato, non veniva da un altro mondo ma da un esterno interno all’occidente: Jacques Derrida parlò allora di un attacco autoimmunitario, molto prima che fossero i documenti dei terroristi reclutati dal gruppo Stato islamico fra gli immigrati europei di seconda generazione a certificare che l’islamizzazione del radicalismo, come la chiama oggi Oliver Roy, è un fenomeno che si alimenta nelle periferie delle nostre metropoli. Ancora, l’irruzione sulla scena dell’attentatore suicida, disposto a uccidersi per uccidere, diceva che nessuna guerra di tipo tradizionale può averla vinta sull’asimmetria di uno scontro privo di quella regola istintiva e primaria di deterrenza che consiste nel non dare la morte per salvaguardare la propria vita.

Di fronte a tutto questo ci fu chi come Oriana Fallaci reagì agitando la rabbia e l’orgoglio, un binomio tuttora coccolato dai nostri media mainstream a sostegno della xenofobia e dell’islamofobia montante. Ma ci fu anche chi come Judith Butler ne trasse materia, al contrario, per una ontologia politica della vulnerabilità e dell’interdipendenza, e per una pratica della convivenza basata sull’elaborazione del lutto. Ci fu chi, come James Hillman, lesse nella ferita che si era aperta nell’inconscio americano la sorgente di una inedita consapevolezza del limite della prima potenza mondiale. O chi, come Spike Lee, immaginò nella Venticinquesima ora di un tempo fuor di sesto la possibilità per il sogno americano di rimediare i propri errori. Tracce di un pensiero della contemporaneità che come tutto, da quella luminosa e vitrea mattina di quindici anni anni fa, non è più lo stesso, ma che da quella ferita del corpo, del pensiero e dell’inconscio si è lasciato attraversare senza chiudersi in un arrocco difensivo, come sta avvenendo invece nel dibattito pubblico europeo sempre più dominato dall’ossessione securitaria. Oggi, scrive il New York Times, c’è il rischio che i bambini americani nati dopo l’11 settembre non ne ricevano memoria alcuna, e guardando le immagini in tv chiedano “ma davvero è successo tutto quel casino?”. In Europa siamo noi adulti ad averne una memoria selettiva, abbarbicata a un bisogno di sicurezza che impugna i “valori fondamentali” come pietre per elevare muri, e nega il lutto a chi muore sui confini. Quindici anni dopo, anche per l’Europa c’è bisogno di una venticinquesima ora.

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