11 luglio 2015 15:40

Non ho mai capito dove mio padre incontrò per la seconda volta Omar Sharif. Credo fosse il Waldorf Astoria a New York o forse era il Plaza, chissà. Questo particolare della storia mi è sempre sfuggito. Ma la prima volta si erano incontrati in un hotel a Parigi, davanti a un ascensore. Erano i mitici anni sessanta. Papà era ambasciatore in Belgio per la Somalia. Però andava spesso a Parigi, a volte ci pernottava “perché Bruxelles, ragazza mia, era proprio noiosa a quei tempi”.

Sta di fatto che si erano salutati con calore davanti a quell’ascensore, con un trasporto e una complicità che era data dalla stessa appartenenza al mondo musulmano. Omar Sharif si era convertito quando aveva sposato la leggenda del cinema egiziano Faten Hamama. Era nato con un altro nome, Michel Demitri Shalhoub, ed era figlio di immigrati libanesi di religione cattolica, greco-melchita. Già questo lo poneva al crocevia di più civiltà. Non a caso parlava correntemente sia l’arabo sia il greco, a cui in seguito aggiunse inglese e francese.

Con mio padre ci fu subito un riconoscimento, bastò un’occhiata. E mio padre si ricorda ancora della sua gentilezza. “Mi invitò a fare una partita a bridge, ma non potevo andarci. Dovevo lavorare”.

Poi ci fu quella seconda volta a New York. “Stava con due belle donne, ma belle da togliere il fiato”, mi disse papà. Ti unisci a noi, sembra che gli abbia chiesto Omar Sharif, “andiamo a cena tutti insieme”. Anche lì mio padre dovette a malincuore rifiutare per gli impegni di lavoro. Poi la vita di mio padre da lì a poco fu travolta dal colpo di stato di Siad Barre che nel 1969 lo privò di tutti i beni e della propria terra. Fu costretto all’esilio in Italia e dovette cominciare tutto da capo, senza il becco di un quattrino. Del periodo precedente papà però mi raccontava tante storie. I frac, le cerimonie, le regole della diplomazia internazionale. E nei suoi racconti non mancava mai “il gentile egiziano con i baffi”. Quindi insieme ai Barbapapà, i robot giapponesi, i problemi con le bollette e i fumetti in tv, la mia infanzia fu caratterizzata dalla presenza di questo attore famoso che si chiamava Omar come mio nonno.

Naturalmente in famiglia il racconto si ingigantì. Mio fratello Mohamed era convinto che papà non ci raccontasse tutta la verità. “Secondo me a cena con il signor Omar ci è andato eccome e chissà dopo cos’è successo con le signore”, sentenziava malizioso. L’altro fratello lo zittiva irritato con degli schiaffetti sulle mani. Mia madre invece ridacchiava di gusto di questo nostro spettegolare. Noi invece speculavamo sulle colleghe del signor Omar: ma chi erano? Perché papà non ce lo diceva? Era forse Sofia Loren? O magari Ingrid Bergman? Chi erano?

Gli attori oggi sono inchiodati alle loro origini, al colore della loro pelle, all’idea cattiva che il mondo ha di loro. Il cinema inchioda alla rappresentazione eterna di sé

Confondevamo quello che vedevamo in televisione con la piccola storia che papà ci raccontava. Sta di fatto che Omar Sharif divenne parte delle nostre chiacchiere famigliari e i suoi film li guardavo con più attenzione di altri. Papà aveva sottolineato la sua gentilezza, ma quello che mi arrivava dai film era soprattutto l’estrema eleganza dei gesti, la bravura e l’innata ironia che gli permetteva di non prendersi troppo sul serio. E poi Omar aveva mille facce. Ma mille davvero! Per un uomo di origine araba, oggi, in questa nostra epoca di arabofobia, islamofobia, stereotipi a gogò, sarebbe molto difficile ripetere la carriera gloriosa di Omar Sharif.

Gli attori oggi sono inchiodati alle loro origini, al colore della loro pelle, all’idea cattiva che il mondo ha di loro. Il cinema inchioda alla rappresentazione eterna di sé. E per molti non c’è via di scampo. Si diventa stereotipo, non personaggio. Ed ecco che molte donne nere sono costrette a fare la prostituta o gli arabi i terroristi o nei migliori dei casi membri di una qualche gang di periferia. La rappresentazione diventa una via crucis e recitare una croce pesantissima.

Per Omar Sharif invece il cammino è stato per fortuna diverso. Anche nel cinema di una volta la rappresentazione era una croce, ma c’era la possibilità di fuggire dalla gabbia se si aveva il giusto coraggio e un po’ di fortuna nel taschino. Omar Sharif è stato la prova che questo sogno di fatto non è impossibile da realizzare. Ha saputo superare le barriere, bruciare i confini. Penso ai suoi personaggi ed è come fare un giro del mondo.

Mezzo globo si è fuso in lui. Il suo volto ha dato forza ai dilemmi esistenziali di un mondo sempre alla ricerca di sé

Nel mitico Funny girl interpretava Nick Arnstein, marito della diva dello Ziegfeld Follies Fanny Brice. Nick era un ebreo americano con una spruzzatina di Olanda (da parte di madre) ed era un fascinoso scommettitore di professione. Omar Sharif l’egiziano ha saputo dare a questo personaggio poliedrico quella dose di fascino mediterraneo in più che poi ha reso (insieme alla voce di Barbra Streisand) Funny girl il successo planetario che è stato. Quando canta You are woman, I am man, vediamo solo questo: il man, l’uomo appunto.

L’origine è una ricchezza, qualcosa da dare al personaggio. Non un freno, non un ostacolo. Così mezzo globo si è fuso in lui. Il suo volto ha dato forza ai dilemmi esistenziali di un mondo sempre alla ricerca di sé. Ed ecco che lo ritroviamo nel film di Francesco Rosi C’era una volta nei panni di un principe spagnolo accanto a Sofia Loren, poi dentro una Roll Royce con Ingrid Bergman, lei una rigida inglese, lui un partigiano jugoslavo di nome Davich. Poi è il re di Armenia Sohamus in La caduta dell’impero romano e naturalmente è Živago, il dottore russo, di cui le donne di ogni epoca si sono innamorate.

Non molti sanno che Omar Sharif ha vestito anche i panni di Che Guevara in un biopic tra i più improbabili della storia del cinema. La sua fu una buona interpretazione, ma il regista Jack Palance nei panni di Fidel Castro non era proprio credibile. Il film confondeva la rivoluzione cubana con gli spaghetti western e fu inserito nel 1978 tra i peggiori film mai prodotti.

Fu anche, è bene ricordarlo, il principe ereditario Rodolfo d’Austria nel film Mayerling di Terence Young, un film dai costumi sontuosi, che facevano rivivere quell’atmosfera di fine di un’epoca, con una corte decadente e sfarzosa. Catherine Deneuve tra le sue braccia sembra una libellula come di fatto lo era Julie Christie nel Dottor Živago.

Ed è questo a colpire dei ruoli che ha interpretato. C’era un po’ di tutto: sesso, storie d’amore passionali, impegno politico. Non c’è argomento che di fatto non abbia toccato o attraversato. È riuscito a dare carnalità al genocidio degli armeni con il film del regista Henri Verneuil Mayrig (che in Italia è circolato poco), con Claudia Cardinale: è la storia di una famiglia che scappa dalla Turchia per approdare a Parigi dopo il genocidio.

Ha saputo calarsi in ogni uomo con una naturalezza invidiabile. Ed eccolo essere il buon musulmano Ibrahim, personaggio ironico tratto dal best seller di Éric-Emmanuel Schmitt, Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano, ma anche il bandito messicano Colorado in L’oro di MacKenna dove ruba la scena a uno stranamente imbronciato Gregory Peck. E poi come dimenticare uno dei suoi ruoli più belli, quello dello Sherif Ali nel kolossal Lawrence D’Arabia? Oggi i mezzi d’informazione lo ricordano come il sultano del cinema, il principe, il fascinoso attore mediorientale.

Omar Sharif era un bell’uomo certo, soprattutto quando aveva i suoi baffi da “bello impossibile” che rendevano quel suo viso così poliedrico. Ci ricorderemo della sua eleganza, la sua passione per il bridge, le dichiarazioni in cui diceva che Hollywood era bella, ma Il Cairo era la sua unica casa. Ricorderemo tante cose di quello che mio padre mi ha descritto come “il gentile egiziano con i baffi”.

Ma ecco, ora che Omar Sharif ci ha lasciato, la sua lezione più grande è proprio in questo suo aver superato tutti i confini. Ha potuto, lui che aveva studiato matematica e fisica, essere attore a tutto tondo. La sua vita e la sua lunga carriera sono di fatto l’eredità più bella. Soprattutto per i giovani arabi oggi schiacciati da troppi stereotipi.

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