04 marzo 2017 10:43

Don Savino quasi non credeva ai suoi occhi. Aveva tra le mani la più sacra reliquia di Amatrice, il cameo della Madonna di Filetta, patrona del paese e delle frazioni vicine. L’effige era stata recuperata tra le macerie della chiesa di Sant’Agostino dopo il terremoto. Il paese non c’era più, ma lei, la piccola reliquia, era lì; apparentemente fragile, ma intatta. Il parrocco, per un attimo che è sembrato a tutti infinito, ha guardato quello che stringeva tra le dita tremanti. Questione di secondi. Poi ha baciato l’effige, ha benedetto i fedeli e ha alzato al cielo quel piccolo cameo che tutto il paese temeva di aver perso per sempre.

Intorno i vigili del fuoco hanno abbassato lo sguardo. Uno, alla destra del parroco, si è tolto per un attimo l’elmetto.

La scena, per chi non era di Amatrice (o di qualche frazione vicina), è risultata inspiegabile.

Perché perdere tempo con un cameo quando intorno la gente stava soffrendo?

Ma per la cittadina laziale quell’effige era importante quanto la vita stessa. L’unico legame di un popolo che aveva perso tutto, il suo passato, i suoi riti, i suoi antenati.

Quell’effige in fondo incarnava proprio l’anima di Amatrice, che in qualche modo stava cercando di rialzarsi.

Il santo non è un superuomo. Non ha poteri straordinari e, se li ha, li usa con parsimonia

Questo sentimento lo ha spiegato bene Michela Monferini nel libro L’altra notte ha tremato Google Maps, dove un nipote riporta la nonna nella sua Amatrice e lo fa attraverso Google maps. Lì, in quelle immagini satellitari, non c’è stato nessun terremoto. Ogni strada è intatta, ogni ricordo fissato sullo schermo per sempre. Tutto è perso, sembra dirci l’autrice, ma finché ci saranno i ricordi si potrà ricominciare. In fondo anche aver recuperato l’effige della Madonna, che secondo la leggenda una pastorella avrebbe ritrovato in paese nel 1472, è il segno che da qualche parte si può davvero ripartire.

Quell’effige è un simbolo religioso, certo, ma anche un simbolo popolare. Si nutre delle passioni e dei pensieri più profondi di quella comunità che lo ha eletto a emblema.

Ed è proprio di questa religione popolare che parla Lascia stare i santi, l’ultimo lavoro del regista Gianfranco Pannone. I suoi documentari sono sempre delle bellissime galoppate nella storia. Con l’occhio attento del documentarista, Pannone ci spinge a ripensare il tempo e lo spazio in modi assolutamente inediti. In Lascia stare i santi, nato da un sodalizio con l’etnomusicologo e musicista Ambrogio Sparagna (nonché dal lavoro del montatore Angelo Musciagna, del supervisore alla fotografia Tarek Ben Abdallah, dei responsabili del montaggio e mix audio Marco Furlani e Angelo Malavasi), Pannone ci fa percorrere l’Italia attraverso alcune processioni legate al culto dei santi.

Una scena di Lascia stare i santi


Uno dei suoi propositi dichiarati è di non lasciare il discorso delle radici e dell’identità italiana a forze oltranziste, conservatrici o apertamente xenofobe. La sua ricerca gli ha fatto conoscere una religiosità non solo aperta, ma anche gioiosa. In una delle prime scene, in un bel colore saturo targato Agfa, vediamo un pastore abruzzese. L’uomo è anziano e ha passato gran parte della sua vita a faticare, con le pecore, d’estate, tutto il giorno, tutti i giorni. A volte (per fortuna!) le pecore dormono ed è in quei momenti per devozione, ma anche per non stare con le mani in mano, che il pastore intaglia il legno. Fa seggiole, soprammobili, tavolini. Tutte con le immagini della Madonna o dei santi. Ma il pastore ha, e lo dichiara con orgoglio, fame di conoscenza. Ed è allora che fa la lista delle opere che ha letto e amato di più. C’è l’Eneide, i poemi omerici, l’Orlando furioso, La divina commedia, Il decameron, Il Morgante. Il suo viso sembra una delle sue opere, intagliato anche lui nel legno. C’è qualcosa di antico nella sua gestualità, qualcosa di profondamente mediterraneo e poetico che lo lega al Nordafrica, alla Turchia, ai Balcani, alla Palestina. Un volto, però, che l’Italia di oggi tende a dimenticare.

Zampogne e fisarmoniche
Ed è così, quasi per incanto, che Lascia stare i santi ci porta in questo universo fatto di uomini incappucciati come i perdune di Taranto o di bambini sospesi nel cielo come nei misteri degli angeli di Campobasso. Ci sono zampogne e fisarmoniche. Ci sono betulle, ulivi, asini, tori. Ci sono donne con i capelli al vento che ballano la loro gioia e la loro disperazione. Mentre altre donne portano un velo che è così simile a quello che oggi indossano tante musulmane.

È un film fatto di grandi folle, quello di Gianfranco Pannone, ma anche di profondi silenzi. Fatto di corse sfrenate e passi lentissimi.

Ciò che emerge è che in fondo il santo è qualcosa di molto vicino, quasi quotidiano.

“Nell’uomo che vive nella civiltà contadina”, spiegava Pier Paolo Pasolini in un brano ripreso nel film, “in qualunque oggetto, in qualunque avvenimento e a qualunque livello della sua vita si poteva sentire la presenza del sacro”.

Il santo non è mai stato un superuomo. Non ha poteri straordinari e se li ha li usa con parsimonia. Il santo, almeno per come lo vive il popolo, è emanazione di quello che i fedeli sentono di essere. È di fatto un fratello maggiore a cui chiedere protezione o, chissà, un consiglio. Conosce le traversie della terra, perché forse le ha attraversate. Un po’ come san Giuseppe da Copertino, il santo “cafone” ricordato da Ignazio Silone in Fontamara, anche lui nel film, che al padreterno chiede solamente “un gran pezzo di pane bianco” perché di più, forse, non sa chiedere.

Ma se per Pasolini quel mondo era finito, ucciso dalla civiltà borghese e industriale, non lo è oggi per Gianfranco Pannone.

È solo attraverso la musica, i rumori e le urla che riusciamo a percepire il tumulto che attraversa il misticismo popolare

Quasi in ogni scena del documentario, il regista sottolinea la forte presenza (e direi perseveranza) del “noi” rispetto all‘“io”. Viviamo un presente in cui l’io quasi ci asfissia e ci condanna alla solitudine. Ma un paese come l’Italia, che ha subìto tante calamità naturali e storiche, ha bisogno, secondo Pannone, di riappropriarsi del noi. Ed è qui che la storia ci sorprende: riti che molti pensavano finiti nel dimenticatoio sono invece più vivi che mai.

L’Italia è un paese di paesi ed è nei paesi che i santi marciano ancora. E in molti parti della penisola, a sorpresa, sono i più giovani a portare avanti la tradizione. Ma lo fanno, spiega Pannone, con una consapevolezza nuova e intelligente. Se un giovane parte da Torino per Sessa Aurunca, in Campania, “per essere parte attiva della settimana santa di Pasqua”, sa che la sua non è un’operazione nostalgica, ma qualcosa che gli permetterà in futuro di dire a se stesso: io esisto, perché in parte sono anche questa terra.

Per fare questo giro d’Italia in mille e più santi Gianfranco Pannone ha lavorato su del preziosissimo materiale d’archivio. In primo luogo ha attinto a piene mani da quello sterminato pozzo di San Patrizio che sono le immagini dell’IstitutoLuce (che è anche produttore e distributore del film), dai cinegiornali della Settimana Incom e dai filmati di Combat Film. Però ha anche avuto la fortuna di poter lavorare su documentari d’autore, materiale spurio, materiale vergine e addirittura scarti di cinegiornale. Lo sforzo maggiore per il regista è stato quello di dare un respiro e un tempo alle immagini. Non soffocarle, ma assecondarle.

La musica è stata fondamentale in tutto questo. Nel documentario Ambrogio Sparagna fa emergere una moltitudine di voci che portano chi guarda a capire quanto nei riti la musica sia terapeutica e sacra insieme. In un canto come Epame oli na dume To Kkristò, un canto della tradizione griko-salentina sentiamo la presenza di qualcosa che allo stesso tempo è in noi e fuori di noi.

È solo attraverso la musica, i rumori e le urla che riusciamo veramente a percepire il tumulto che attraversa il misticismo popolare.

Ed ecco i sorrisi di chi si ammassa dietro la Madonna Nera di Loreto, i riti di fertilità quasi pagani che si celebrano ad Accettura, in Basilicata, o il viaggio di San Francesco da Paula da Reggio Calabria a Messina, un viaggio tra Scilla e Cariddi che ricorda quello dei migranti dalle coste libiche.

La messa della comunità eritrea per Kidane Mehret nella chiesa di San Tommaso al Parione a Roma, il 19 febbraio 2017. (Rino Bianchi)

Insieme alla musica, nel documentario, ci sono le voci di Sonia Bergamasco e Fabrizio Gifuni che fanno da raccordo tra le varie parti del film. È attraverso di loro che ci arrivano le parole di Danilo Dolci quando dice: “Ho visto il popolo che ha un cielo caldo in braccio. Un cielo vivo”. O quelle di Mario Soldati che, in una lettera a Ermanno Olmi, sostiene: “Abbiamo perduto qualcosa di essenziale, valeva la pena? Valeva la pena, si certo, certissimo. Ma bisogna pure che recuperiamo quel qualcosa che abbiamo perduto”.

Ma in Lascia stare i santi è soprattutto il corpo a non dimenticare. Basta andare a vedere la processione dei fujenti, quella della Madonna dell’Arco nel comune di Sant’Anastasia, in Campania. Si svolge il lunedì di Pasqua e ricorda un torto fatto alla Vergine da un giocatore di pallamaglio che ruppe (di proposito) l’edicola della Madonna. Da allora i fujenti chiedono perdono alla Vergine e insieme anche delle grazie per se stessi o i propri cari. Nella processione, tra le più famose d’Italia, si fondono anima, dramma e folclore. Sembra una guerra, come di fatto lo è anche la processione di sant’Agata a Catania, dove i fuochi di artificio sembrano cannonate sulla città. A Sant’Anastasia il dramma è tutto in quei fedeli che percorrono chilometri a piedi nudi. Quando giungono in chiesa i sentimenti sono già pronti per esplodere. I fedeli sono presi da delirio, tremore, pianti, crisi. Il loro corpo viene benignamente costretto a un rito fatto di gesti, ore di fatica e dedizione. E solo attraverso questa griglia il corpo finalmente riesce a esprimere quello che a volte a voce non riesce a dire. Nel rito dei fujenti l’essenziale è partecipare. Non importa se il proprio voto sarà esaudito o no. Quello che conta è la serenità che si riesce a ottenere dopo il rito.

Una domenica a Roma
Il documentario che in questi giorni sta girando l’Italia in una sorta di processione (il dvd uscirà a Pasqua con il cd delle musiche di Ambrogio Sparagna ) ha colpito particolarmente il pubblico delle grandi città che si sente molto lontano da una dimensione religiosa fatta di canti, marce e riti. Ma la realtà delle metropoli è sempre più complessa di quello che ci immaginiamo. Sono molte le religioni che dialogano con lo spazio e il tempo della città. Basta pensare alla festa musulmana del Eid dove una moltitudine allegra e festante si dirige verso la moschea con gli abiti più belli, o di quando nelle piazze appare quasi dal nulla un candelabro per la ricorrenza della Hanukkah ebraica. Anche sul versante cristiano ci sono molte sorprese e spesso provengono dai migranti. A Roma, domenica 19 febbraio, bastava prendere un qualsiasi autobus dalla stazione Termini verso il centro per capire che per qualcuno quella era una giornata davvero speciale. L’autobus era pieno di eritrei. Sembrava di essere ad Asmara, a Massawa o a Keren. Le donne erano avvolte in splendidi scialli bianchi. I loro volti estatici. “Cosa festeggiate?”, ho chiesto loro. “Oggi celebriamo la Madonna, è la festa di Kidane Mehret, stiamo andando a messa e poi faremo una processione”.

La processione della comunità eritrea per la festa di Kidane Mehret nella chiesa di San Tommaso al Parione, Roma, il 19 febbraio 2017. (Rino Bianchi)

Kidane Mehret è una festa celebrata sia dagli ortodossi sia dai cattolici in Etiopia e in Eritrea. Sancisce il patto di misericordia (questo significa in ge’ez Kidane Mehret) tra Gesù e Maria. Secondo questa tradizione, la sacra famiglia durante la fuga in Egitto, mentre cercava un asilo sicuro, si è ritrovata in un paese africano, l’attuale Etiopia. Da allora Maria ha ricevuto come concessione che chiunque la invochi sia salvato dall’inferno. Il patto di solidarietà nasce quindi dall’antica ospitalità ricevuta.

Seguo il gruppo di donne alla chiesa di San Tommaso in Parione, nella via omonima, alle spalle di Piazza Navona. La chiesa è cattolica di rito alessandrino. La messa lunghissima, intensa e piena di momenti rituali. La gente canta quasi in trance, alcuni momenti si svolgono sotto un ombrello riccamente adornato. Gli uomini sono tutti assiepati sulla navata sinistra, le donne esattamente dall’altro lato. E dopo la messa la gioia esplode. Gli eritrei e le eritree prendono per un attimo possesso del centro di Roma. Un ragazzo vestito di bianco con una croce viene posto alla testa del corteo colorato. Dietro di lui donne e uomini con tamburi e tamburelli cantano, suonano e si agitano. È allora che mi ricordo delle scene del film di Gianfranco Pannone, in fondo Asmara non è così tanto diversa da Catania, Napoli, Torino, Campobasso. Stessa devozione, stessa felicità. I turisti scattano foto, i romani applaudono. Al centro del corteo alcune donne tengono in alto dipinti della Madonna, in alcuni Maria è bianca come il latte, in altri invece è orgogliosamente nera. Si intrecciano generazioni. Nonne, madri, nipoti. Le nonne hanno fatto le badanti nelle case degli italiani, le mamme hanno cercato di arrangiarsi alla bell’e meglio, i figli ora vogliono riscattare il passato, studiare, stare bene, sognare. Ma per il momento si sogna solo di riempire la pancia. Una signora me lo dice all’orecchio: abbiamo preparato l’injera e lo zighinì, vieni a via Dandolo ce n’è per tutti.

Io, invece, continuo a guardarli. Molti sono ragazzi, molti hanno attraversato il deserto del Sahara, le carceri libiche, le torture, la onde cattive del Mediterraneo. Molti di loro sono sbarcati a Lampedusa e ora sono a Roma, a via del Parione. Qualcuno si fermerà in Italia, altri invece hanno deciso di proseguire il viaggio. Cosa chiederanno alla Madonna? Forse la fine dell’apartheid di viaggio che non permette ai loro corpi di viaggiare legalmente come gli altri. Sanno che non è giusto, che niente di quello che gli sta capitando lo è. Ma credono in se stessi e sanno che qualcuno, da qualche parte, sta lottando per avere un altro patto di misericordia.

Nell’attesa pregano e a suon di musica trasformano Roma nella loro Africa.

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