17 gennaio 2017 16:09

Quando Donald Trump ha vinto le elezioni presidenziali statunitensi, l’8 novembre 2016, aveva un sacco di ammiratori cinesi. Ma da allora la sua popolarità è crollata a causa delle sue affermazioni – diffuse spesso via Twitter – su temi controversi come lo status di Taiwan e la sovranità nel mar Cinese meridionale. Non è la prima volta che l’opinione della Cina nei confronti di un leader statunitense cambia rapidamente in peggio.

Questo ci ricorda quel che accadde al presidente statunitense Woodrow Wilson dopo la sua rielezione, nel 1916. All’epoca molti intellettuali cinesi, compreso il giovane Mao Zedong, ammiravano Wilson, un politologo che era stato preside dell’università di Princeton. Ma poi, nel 1919, Wilson fu tra i sostenitori del trattato di Versailles, che trasferiva al Giappone il controllo degli ex territori tedeschi nella provincia di Shandong, invece di restituirli alla Cina. E Wilson perse rapidamente i consensi di cui godeva in Cina.

Un contrappeso illuminato
Nel 1916, l’anno in cui Wilson era stato eletto per il suo secondo mandato, la Cina si trovava in condizioni disastrose. Nonostante la repubblica creata nel 1912 fosse ufficialmente un’unica entità, in realtà era estremamente frammentata. I capi militari controllavano diverse regioni, mentre le potenze straniere, usando corruzione e prevaricazione, s’impadronivano di ampie porzioni del territorio cinese. Per gli intellettuali cinesi, Wilson rappresentava un contrappeso illuminato a dei signori della guerra senza scrupoli.

Ma il fascino esercitato da Wilson in Cina andava oltre le apparenze. Nel 1918 la popolarità di Wilson ebbe un’impennata, e non solo in Cina, in seguito al suo discorso alle Nazioni Unite, nel quale lanciò l’appello all’“autodeterminazione” dei popoli. Ignorando il sostegno di Wilson alle leggi razziali Jim Crow negli Stati Uniti e l’invasione di Haiti da lui orchestrata, gli intellettuali di paesi messi in ginocchio dall’imperialismo come l’Egitto e la Corea presero a cuore la sua dichiarazione e cominciarono a considerarlo un salvatore e difensore degli oppressi.

I patrioti cinesi, in particolare, speravano che sotto la guida di Wilson gli Stati Uniti avrebbero potuto rafforzare la loro presenza in Asia in un modo che avrebbe contribuito a proteggere la Cina dalle mire espansionistiche del Giappone imperiale. Per questo, il sostengo di Wilson al trattato di Versailles rappresentò ai loro occhi un deciso tradimento.

La Cina oggi vuole un presidente statunitense che si occupi soprattutto di questioni interne

La Cina del 2016 è incredibilmente diversa da quella del 1916. Nella gerarchia economica globale ha rapidamente superato anche paesi avanzati. È unificata sotto una leadership forte e con obiettivi chiari. Ed è molto estesa, poiché comprende quasi tutti i territori che erano parte dell’impero Qing al suo massimo splendore. Una delle poche eccezioni è Taiwan, ma la finzione diplomatica dell’“unica Cina” alimenta l’illusione che un giorno, in qualche modo, l’isola democratica e la madrepatria autoritaria potranno ricongiungersi.

Per farla breve, la Cina non ha più bisogno della protezione degli Stati Uniti. Quel che vuole è un presidente statunitense che si occupi perlopiù di questioni interne e non si preoccupi di limitare l’ascesa della Cina, come ha fatto Barack Obama. In questo modo Pechino potrebbe ridefinire i suoi rapporti di potere in Asia a suo vantaggio, senza preoccuparsi di un’interferenza statunitense.

Desiderio di “autenticità”
Prima delle elezioni Trump era già noto per le sue gravi accuse alla Cina, soprattuto in questioni economiche come il commercio. Ma la sua apparente mancanza d’interesse per la politica estera era piaciuta molto ai dirigenti cinesi. Sembrava molto più propenso della sua avversaria, l’ex segretaria di stato Hillary Clinton, a lasciar stare la Cina. Le sue affermazioni, secondo cui si sarebbe impegnato meno dei suoi predecessori a sostenere i tradizionali alleati degli Stati Uniti in Asia, come la Corea del Sud o il Giappone, erano musica per le orecchie dei nazionalisti cinesi, così come il suo mettere in dubbio gli impegni degli Stati Uniti nella Nato sono musica per quelle del presidente russo Vladimir Putin.

Come Wilson, Trump si era guadagnato alcuni ammiratori semplicemente grazie a una personalità inconsueta per un politico. Anche se Trump non è un intellettuale a molte persone è piaciuto il fatto che sembri dire (o twittare) tutto quel che pensa, dando prova di un “parlar franco” in forte contrasto con l’atteggiamento di quei politici più misurati che, come il presidente Xi Jinping, controllano ogni singola parola.

Un simile desiderio di “autenticità” ha alimentato, pur se in un modo diverso, la popolarità di un altro funzionario statunitense, Gary Locke, ambasciatore degli Stati Uniti in Cina dal 2011. Le foto di Locke che indossava il suo zainetto e comprava un caffè da Starbucks, azioni semplici che gli alti funzionari cinesi farebbero svolgere ai loro sottoposti, hanno generato una serie di post in rete che ne hanno dato un’immagine di funzionario pubblico virtuoso. Quanto devono essere diversi gli Stati Uniti, dicevano i loro sostenitori, rispetto alla Cina, dove funzionari corrotti e la loro progenie viziata si concedono stili di vita lussuosi che ricordano le famiglie imperiali dell’età dinastica.

È difficile immaginare che tanta ammirazione abbia oggi qualche valore, visto che continuano a emergere foto degli opulenti attici di Trump a Manhattan e delle sue lussuose feste a Mar-a-Lago. E sebbene lo stile comunicativo di Trump continui a colpire, risulta molto meno affascinante quando si diventa oggetto dei suoi rudi commenti su argomenti sensibili. Così come una Cina debole non poteva contare sulla protezione di Wilson, una Cina forte non potrà sperare di togliersi Trump dai piedi, a meno di non farsi strada a spallate.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito sul quotidiano giapponese The Japan Times.

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