11 aprile 2017 10:13

Come fa la Cina a essere un “paese comunista” quando ha così tante caratteristiche tipiche del capitalismo? Non ricordo quando mi è stata posta per la prima volta questa domanda, ma credo fosse intorno al 1 luglio 1997, una data importante perché corrisponde al ritorno di Hong Kong sotto la sovranità di Pechino, il momento che ha trasformato una colonia della corona britannica chiaramente capitalistica in una regione amministrativa speciale della Repubblica popolare cinese guidata dal Partito comunista.

Credo che continueremo a farci questa domanda. Dopo tutto ci sarà sempre qualcosa di contraddittorio in quei dirigenti che dicono d’ispirarsi a Marx e Mao mentre governano un paese dove il divario tra ricchi e poveri aumenta e dove abbondano McDonald’s, enormi centri commerciali e multisala.

Oggi, infatti, in un’epoca complessa che fa i conti con il tramonto delle ideologie, l’interrogativo è diventato: come può Xi Jinping sostenere di essere il campione della globalizzazione quando il suo partito controlla internet in modo incessante e denuncia l’influenza delle idee occidentali nei campus universitari? Perché un dirigente che ambisce a “globalizzare” e “aprire” la Cina, censura e reprime la società civile di Hong Kong, una città decisamente globalizzata e aperta al mondo?

Nazionalismo e consumismo
Alla fine degli anni novanta e agli inizi del duemila, per affrontare il dualismo tra capitalismo e comunismo spiegavo che era necessario superare i dualismi da guerra fredda e considerare semplicemente la Cina come un luogo ibrido.

Oggi sottolineo che, in parte, è proprio a causa del suo avvicinamento al capitalismo che il Partito comunista è stato in grado di rimanere al potere in Cina anche molto tempo dopo la caduta dei partiti unici in Europa dell’est. E aggiungo che a questa variabile bisogna affiancare quella del nazionalismo. Uno dei motivi per i quali il Partito comunista rimane al potere in Cina, e altrove, come in Vietnam, è che si fa forte dell’idea di aver avuto in passato un ruolo fondamentale nelle rivoluzioni di liberazione nazionale.

Eppure, il punto non è solo che, nonostante la presenza del Partito comunista, in Cina siano arrivati i fast-food, i karaoke e i concessionari di auto di lusso e il parco a tema della Disney a Shanghai, ma il fatto che il loro arrivo abbia contribuito a mantenere il partito al potere.

Uno dei motivi di malcontento in diverse zone del blocco sovietico prima del 1989 era una diffusa sensazione che i gruppi al potere in quei paesi fossero incapaci, letteralmente, di garantire la diffusione di beni materiali e che la vita fosse noiosa e ripetitiva. La gente sapeva che le scelte politiche erano molto più limitate a Berlino Est che a Berlino Ovest, oppure a Budapest rispetto a Bruxelles, ma sapeva pure che le scelte erano limitate anche nell’offerta di cibo, divertimento, o televisione.

Lo stesso è accaduto dopo gli anni ottanta, quando sono aumentate le differenze tra le scelte politiche possibili a Taipei e a Pechino: nonostante la democratizzazione di Taiwan e la mancanza di un simile processo in Cina, le differenze tra le possibilità di scelta dei consumatori si sono decisamente ridotte, e questo ha permesso al Partito comunista cinese di sopravvivere.

Segnali inquietanti
Un simile approccio può servire per rispondere alle nuove domande sulla Cina. Da un certo punto di vista, quando Xi Jinping alterna la strenua difesa della globalizzazione con i tentativi di isolare la Cina da alcuni flussi internazionali, non fa altro che mostrare che, come molti leader, è in grado di fare cose contraddittorie e mandare messaggi altrettanto contraddittori.

C’è qualcosa di più, però, con cui bisogna fare i conti.

Xi si sente in grado di fare alcune scelte a favore dell’isolamento della Cina, proprio perché il paese è ormai molto più integrato nelle strutture internazionali e intrattiene rapporti con diversi stati. La cosa appare evidente soprattutto nel tentativo di rendere Hong Kong più simile alle altre città cinesi, nonostante la promessa che avrebbe potuto mantenere buona parte della sua autonomia per un altro mezzo secolo, dopo il 1997.

Almeno fino al 2007, Hong Kong ha conservato una parte di questa autonomia perché costituiva un intermediario economico tra la madrepatria e il mondo della finanza e degli affari internazionali. Probabilmente, i dirigenti del Partito comunista cinese speravano che gli editori di Hong Kong smettessero di pubblicare libri sui lati oscuri della politica di Pechino e che i suoi organi d’informazione aderissero ai dettami ufficiali. E questo approccio “morbido” sembrava un prezzo modesto da pagare rispetto ai vantaggi derivanti dal fatto che Hong Kong fosse diventata una regione amministrativa speciale (Sar) della Repubblica popolare cinese.

Oggi, invece, mentre si avvicina il ventesimo anniversario del ritorno alla sovranità cinese, l’atteggiamento di Pechino nei confronti di Hong Kong appare sempre più improntato al pugno di ferro.

Anche se la Sar è tuttora più libera e più collegata con il mondo rispetto alle altre città cinesi, i segnali inquietanti si stanno accumulando.

Nel 2015 e nel 2016, per esempio, sono spariti vari librai legati a una casa editrice nota per aver pubblicato dei libri scandalistici sulle vite private dei dirigenti del Partito comunista. All’inizio del 2017 le autorità tailandesi, probabilmente in risposta alle pressioni di Pechino, hanno vietato l’ingresso nel paese a Joshua Wong, il capo del movimento degli ombrelli che era stato invitato a Bangkok per tenere un discorso. Più di recente, altri leader della protesta coinvolti in azioni di disobbedienza civile nel 2014 sono stati incriminati per presunti reati commessi vari anni prima, e le loro condanne sono arrivate il giorno dopo l’insediamento del nuovo chief executive di Hong Kong, vicino alle posizioni di Pechino, e nominato dopo elezioni nelle quali ha potuto votare solo una minima parte della popolazione locale.

Compito più facile
Ci sono molte variabili in gioco nell’inasprimento della posizione di Pechino nei confronti di Hong Kong, ma un elemento che facilita il compito degli attuali dirigenti del Partito comunista cinese, rispetto ai loro predecessori, è la mutata posizione globale della Cina.

L’accresciuta importanza della borsa di Shanghai e il ruolo centrale della Cina nella nuova Banca asiatica d’investimento infrastrutturale, per citare solo due sviluppi recenti, hanno diminuito la dipendenza di Pechino nei confronti di Hong Kong come centro di collegamento con il resto del mondo. Dato l’attuale clima internazionale, Xi si sentirà meno vincolato dalle reazioni internazionali di fronte a un inasprimento delle azioni contro la società civile di Hong Kong di quanto lo fu Hu Jintao in occasione del decennale. Anche il coinvolgimento della Cina in progetti di sviluppo nei paesi vicini contribuisce a divieti d’ingresso come quello imposto a Joshua Wong dalla Thailandia, che non a caso è uno dei paesi dove si sono perse le tracce di uno dei librai scomparsi.

Insomma, se è proprio a causa dell’avvicinamento al capitalismo che la Cina è ancora governata da un partito comunista, allo stesso modo questo avvicinamento è una delle cause delle sofferenze della sua città più globalizzata.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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