23 aprile 2015 10:51

Conoscevo due partigiani. Si chiamavano Luciano e Renato, e hanno vissuto la maggior parte della loro vita nel quartiere operaio della Bovisa, a Milano.

Luciano e Renato parlavano raramente della loro esperienza di partigiani. Quando lo facevano, raccontavano i fatti. Renato diceva di aver “lavorato” in città durante la resistenza. Per lui era semplicemente questo, “un lavoro”, qualcosa di naturale per un giovane antifascista cresciuto sotto il giogo di Mussolini. Luciano invece era sulle montagne, ma neanche a lui piaceva vantarsi di quei tempi. Luciano e Renato erano due uomini onesti che hanno vissuto una vita onesta. Calmi, dignitosi, istruiti, sempre eleganti e sempre pronti ad aiutare gli altri.

Alla Bovisa ogni 25 aprile succedevano le stesse cose. La gente si radunava con le bandiere (alcuni in bicicletta e gli altri a piedi) nel cortile della cooperativa di via Mercantini. Luciano e Renato vivevano lì. La cerimonia cominciava. Il quartiere era segnato da piccole targhe posizionate nei luoghi dove avevano vissuto i partigiani scomparsi. Erano e sono targhe semplici, forme classiche di memoria. Spesso riportavano solo l’età dei “martiri per la libertà”, altre volte erano più dettagliate. Di solito c’era anche una foto, capace di immortalare per sempre quei volti giovani che non erano mai invecchiati.

La cerimonia passava davanti a ogni piccola targa, e ogni volta veniva pronunciato un piccolo discorso per raccontare la storia del partigiano e veniva deposta una corona di fiori. Ogni anno c’erano sempre le stesse persone. Una volta deposte tutte le corone (appese a un piccolo gancio sotto ogni targa) la cerimonia terminava con un caffè o un bicchiere di vino alla cooperativa. A volte la cerimonia era più lunga (magari includeva una visita al cimitero maggiore o al luogo principale della memoria partigiana, in piazza dei Mercanti), ma di solito non superava le strade grigie e anonime della Bovisa, le strade un tempo costellate di fabbriche con i loro fumi e le loro sirene a scandire la giornata lavorativa. Di solito le targhe venivano posizionate fuori delle tipiche “case di ringhiera”, con i loro piccoli appartamenti e i piccoli balconi in strade dove tutti si conoscevano, luoghi di classe e comunità.

Quando un palazzo con una targa veniva abbattuto o ricostruito, i partigiani locali si assicuravano che la targa fosse rimessa al suo posto e conservata per i posteri. Quando non c’era più un posto dove affiggerla, mandavano la targa all’ufficio centrale dell’Anpi. Per queste persone la memoria era importante. Loro erano i sopravvissuti, quelli che avevano combattuto il fascismo senza perdere la vita.

A volte i fascisti bruciavano le corone di fiori o danneggiavano le targhe. I partigiani si occupavano di sostituire le corone e riparare le targhe. Quel marmo era importante. Doveva restare lì. Una delle targhe indicava l’appartamento di un partigiano che era stato deportato a Mauthausen e non era più tornato. Un prigioniero politico.

Alla Bovisa il 25 aprile è stato così per decenni, fino a quando i partigiani sono rimasti in vita. Ora la maggior parte di loro non è più tra noi. Ma la cerimonia va avanti, in un modo che immagino molto simile al passato. Presto non ci sarà più nessuno che ha combattuto nella resistenza, così come non ci sono più veterani della prima guerra mondiale. Ma il 25 aprile rimarrà una data importante per l’Italia, per tutti quelli che credono nella democrazia e per la memoria dei giovani che sono morti per restituire la democrazia a un paese da cui mancava da tempo.

Nelle cerimonie alla Bovisa c’era poca retorica. Erano cerimonie schiette, informali, orgogliose, dignitose e rispettose del passato. Luciano e Renato erano il cuore e l’anima del 25 aprile. Avevano rischiato la vita durante la resistenza, credevano nella costituzione e nei suoi valori. Ora alla Bovisa c’è una targa collettiva per ricordare tutte le persone del quartiere che non ce l’hanno fatta a vedere la repubblica. Ancora una volta è un monumento semplice, come le persone che lo hanno voluto. È una risposta antiretorica e locale agli eventi nazionali, spesso privi di senso, organizzati per celebrare la resistenza.

Quello della Bovisa era il 25 aprile del popolo, un 25 aprile democratico. Un 25 aprile di cui si parla poco ma che resta importante per molti italiani, e continua a ripetersi in tutto il paese, ogni anno, mentre il testimone passa alle nuove generazioni.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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