23 marzo 2012 16:00

Oltre a essere il più grande poeta statunitense del novecento, Wallace Stevens era un importante professionista nel settore delle assicurazioni. Conosceva bene il mondo degli affari e aveva tutte le carte in regola per formulare la sua celebre osservazione che “i soldi sono una specie di poesia”.

Ho detto spesso questa frase a persone che lavorano con i soldi, e mi è sempre sembrato che sapessero bene cosa intendeva dire Stevens, anche se è una battuta difficile da spiegare. I soldi sono come la poe­sia perché tutti e due impongono d’imparare a comunicare in un linguaggio compresso che racchiude significato e rilevanza nel minimo spazio semantico. Sono come la poesia anche perché c’è una sorta di bellezza nel modo in cui funzionano i soldi, almeno dal punto di vista matematico: una mancanza di ipocrisia, di ridondanza o di qualunque altra cosa che serva solo a se stessa.

Si noti che Stevens non ha mai scritto un verso che sfiorasse il mondo dei soldi. Non è il solo. Si potrebbe stilare un intero canone dei massimi poeti in lingua inglese composto da persone che hanno avuto una lunga carriera professionale a stretto contatto con il mondo degli affari, da Geoffrey Chaucer (dogana), a Edmund Spenser (governo e amministrazione) a John Milton (come sopra) fino a T.S. Eliot (banche ed editoria) e Stevens. E questo pantheon difficilmente ha scritto qualcosa sul mondo del lavoro e dei soldi. Sembra irragionevole aspettarsi che i poeti affrontino problemi pratici, eppure è possibile: tenete presente che le Georgiche di Virgilio avevano l’esplicita ambizione di essere un manuale di agricoltura oltre che un resoconto della vita pastorale.

Nel canone della narrativa questo vuoto salta ancora più agli occhi. I romanzi, come ha osservato una volta Iris Murdoch, “sono pieni di materiale”. Intendeva materiale come cose, oggetti, luoghi, ma anche nel senso di informazioni, avvenimenti, andare e venire. Il “materiale” dei romanzi tocca ogni aspetto del mondo e della vita delle persone. Per questo colpisce quanto poco ci sia sul mondo dei soldi.

Si prenda Jane Austen. Le sue opere sono incredibilmente attuali sotto quasi ogni aspetto, e le sue intuizioni psicologiche valgono per i nostri giorni proprio come per duecento anni fa. In parte, quel che appare così tonificante e contemporaneo nei romanzi della Austen è la totale mancanza di illusioni sull’importanza del denaro per la vita dei suoi personaggi, e soprattutto per la loro vita sentimentale. Ma non c’è nulla sui soldi in quanto tali, nulla su come funzioni veramente questo aspetto centrale del mondo.

Passiamo al giorno d’oggi, e questa assenza continua. È evidente soprattutto nella narrativa letteraria, che spesso sembra avere una vera e propria avversione per la descrizione del lavoro in generale e del lavoro finanziario in particolare. Lo stesso non si può dire per la narrativa di genere, che offre una serie di coraggiosi tentativi di rappresentare il mondo dei soldi, dal romanzo di Arthur Hailey del 1975, I boss del dollaro fino al recente L’indice della paura di Robert Harris.

Hailey non è più molto di moda oggi, ma i suoi romanzi – che studiano un ambiente alla volta: aviazione, alberghi, ospedali – un tempo erano best seller infallibili, soprattutto perché assicuravano al lettore il piacere di trame a lieto fine insieme a montagne di informazioni. I boss del dollaro ha una scena efficacissima che descrive l’assalto agli sportelli di una banca trentadue anni prima che ne vedessimo uno dal vivo alla Northern Rock. Ma questo modo di sporcarsi le mani e di affrontare concretamente il mondo della finanza è assente dalla narrativa non di genere. Non lo era nell’ottocento, quando scrittori come Balzac, Dickens e Trollope s’interessavano ai soldi come a tutto il resto.

Una vita normale

Perché? In parte è colpa della definizione di letteratura. Un critico letterario francese una volta mi ha detto: “Se i francesi amano autori come Nick Hornby o Jonathan Coe è anche perché scrivono di quello che fa la gente e dimostrano interesse per la vita normale, come i vestiti, la musica e andare al supermercato. Qui in Francia il romanzo non lo fa. Il romanzo pensa a se stesso in lettere maiuscole. Il romanzo serio da noi parla soprattutto della vita interiore dei personaggi e gli scrittori non vogliono metterci la vita di tutti i giorni perché lo renderebbe meno letterario”.

Da Parigi è facile diagnosticare questo atteggiamento, che però ha un certo peso anche in inglese. Io do la colpa a Henry James. È stato il primo grande scrittore di lingua inglese a rendere il romanzo consapevole di essere un’opera d’arte, preoccupata dei suoi procedimenti formali e dominata da regole sul punto di vista del narratore. T.S. Eliot definì questo atteggiamento facendo a James quello che si suppone sia un complimento: disse che James “aveva una mente così sottile che nessuna idea poteva violarla”.

Con questo non si vuole dire che non ci siano molti grandi artisti nella tradizione precedente. Ma James aveva una sua idea di quello che era appropriato o non appropriato al regno dell’arte, un’idea che Defoe, Dickens, Thackeray o George Eliot avrebbero rifiutato. James credeva che certi argomenti non potessero essere arte. Questa è una convinzione sbagliata, ed è il motivo per cui, nonostante la sua grandezza di scrittore, l’influenza di James sul romanzo inglese è controversa, e si riassume per me in una lacuna del suo grande romanzo Gli ambasciatori (1903).

Uno dei personaggi, Chad Newsome, discende da una famiglia diventata ignobilmente ricca grazie alla produzione – e qui viene il bello – “di un piccolo oggetto banale, piuttosto ridicolo, del più comune uso domestico”. Sono tutte le informazioni che otteniamo, ed è per questo che Tolstoj, Dickens, Balzac, Stendhal, Eliot, Melville e Flaubert sono, in ultima analisi, scrittori più grandi del programmaticamente “artistico” James. Nessuno di loro ci avrebbe risparmiato il brivido di sapere esattamente su cosa si fondava la fortuna familiare di Newsome (chi se ne intende scommette che fosse qualcosa di attinente ai gabinetti). Gli scrittori che emergono dall’ombra di James corrono sempre il rischio di lasciare fuori elementi della condizione umana che dovrebbero esserci.

Ritmi incessanti

Il secondo motivo per l’assenza dei soldi dalla narrativa ha a che fare con la velocità dei cambiamenti. Il romanzo non ha bisogno di essere deliberatamente artistico nei suoi interessi, ma ha assoluto bisogno di essere umano. I ritmi della vita, dei pensieri e dei sentimenti umani sono quello che sono, e a livello profondo direi che non sono molto cambiati. I ritmi del denaro sono diversi e i suoi dettagli concreti cambiano con straordinaria rapidità, tanto che un romanzo sulle tendenze finanziarie di questi mesi rischierebbe di essere irreparabilmente superato se fosse pubblicato tra un paio d’anni.

Questo rischio è dimostrato da un libro che amo molto, uno dei miei romanzi contemporanei preferiti, Si spengono le luci (1993) di Jay McInerney. Il romanzo è ambientato nel mondo dell’editoria di New York alla fine degli anni ottanta: Russell Calloway, un redattore che non riesce a fare carriera, si fa contagiare dalla corsa alle acquisizioni e decide di comprare l’illustre e antica azienda letteraria per cui lavora. Il tono è splendidamente bilanciato tra luce e ombra fino al crollo dell’ottobre 1987: l’offerta di acquisto non va in porto e Russell perde il lavoro e forse anche il matrimonio.

Il romanzo si conclude con toni tristi e pessimistici che echeggiano il suo bel titolo e danno una sensazione generale di declino, malinconia e fine di una festa. Questo, di fatto, era sbagliato: il crollo del 1987 fu solo una battuta d’arresto, e l’intero delirio finanziario ricominciò più forte e più a lungo di prima. Questo significa che Si spengono le luci è un compendio perfetto di quelli che si rivelarono un umore e una fase di breve durata: il suo tono e la sua prospettiva più ampia sono stati in larga misura smentiti da quanto è successo dopo. Il romanzo cercò di cogliere un momento nel mondo del denaro, ma non lo capì, e questo è sempre un rischio.

Un mondo complesso

Il terzo e ultimo motivo per cui la letteratura diffida della finanza riguarda la complessità. Questo non vale solo per i soldi, ma anche per molti altri campi del sapere moderno, come il diritto e la medicina. Questi due settori vengono spesso raccontati in televisione, anzi sono veri e propri pilastri del piccolo schermo, ma devo ancora conoscere un professionista dell’una o dell’altra disciplina che sia soddisfatto del ritratto televisivo del suo lavoro.

Per mettere in scena questi mondi bisogna semplificare tutto fino alla caricatura. Per comprimere la loro complessità in una storia, bisognerebbe spiegare argomenti complicati e dare alla spiegazione tutto il tempo e lo spazio di cui ha bisogno. Ma nella narrativa non si può spiegare, non nel modo e con l’ampiezza necessari. Nella fantascienza, questa sorta di indispensabile tappabuchi si chiama “mi dica, professore”. Un personaggio pronuncia queste parole e dà il via a una lunga spiegazione dei motivi per cui la propulsione a curvatura non permetterà al protagonista di viaggiare nel vortice di flusso continuo o qualunque altra cosa la trama richiede che faccia. Però le spiegazioni bloccano il racconto. Vanno bene a piccole dosi, come pillole di razionalità prima dello sviluppo del dramma, ma prova a mettere qualcosa di più lungo e il lettore si sveglierà ore dopo per il tintinnio del lattaio che lascia le sue bottiglie davanti alla porta di casa.

Io ne sono molto consapevole, perché alla fine del 2005 mi sono messo a scrivere un romanzo sulla Londra di oggi e l’intera struttura della storia conteneva l’idea di un imminente crollo economico. Sapevo che ci sarebbero voluti alcuni anni per scrivere il libro, ed ero sicuro che ci sarebbe stata una crisi prima che l’avessi finito, anche se pensavo che si sarebbe trattato di un normale crac immobiliare. Avevo insieme torto e ragione.

Quando è arrivato il crollo, mentre stavo ancora scrivendo il romanzo, si è rivelato qualcosa di molto più allarmante e sistemico. Così quando ho finito una bozza del libro, all’inizio del 2009, l’ho messa da parte per qualche mese per scrivere una ricostruzione non narrativa della crisi, Whoops!, un libro che è uscito nel 2010.

Le due ragioni principali per farlo erano perché era straordinariamente interessante e perché così avrei evitato di dover spiegare tutto nel mio romanzo. Potevo esporre i dettagli della mia ricerca, che richiedono spiegazioni, nel saggio, e nel romanzo concentrarmi sulle verità umane, che non richiedono spiegazioni. Avidità, paura e incosapevolezza sono cose che conosciamo tutti. Nella narrativa, potevo scriverne senza costringere i personaggi a dire: “Daphne, per favore potresti ricordarmi cos’è esattamente un credit default swap?”.

Questo significa che difficilmente ci saranno molti romanzi pronti a descrivere nei particolari il mondo della finanza di oggi, proprio come è improbabile che ce ne siano parecchi sulle sfumature di qualunque altra professione: oggi sono troppo complesse e specialistiche. C’è qualcosa di triste in tutto questo, ma almeno significa che i romanzieri sanno dove devono concentrarsi: sulle verità delle persone, che rimangono vere. Siamo tornati alla poesia e all’osservazione di Ezra Pound: “La letteratura è una notizia che rimane notizia, una novità che resta nuova”.

(Traduzione di Giuseppina Cavallo)

Questo articolo è stato pubblicato il 23 marzo 2012 a pagina 96 di Internazionale con il titolo “Scrivere i soldi”. Compra questo numero | Abbonati

La versione originale è uscita il 2 marzo 2012 sul Financial Times con il titolo “Show me the money”.

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