13 dicembre 2016 11:55

La foto mostra la Casa Blu – il palazzo presidenziale che domina il centro di Seoul da una collina – avvolta dalle fiamme e da nuvole di fumo mentre una decina di soldati armati con l’elmetto in testa avanza pronta per l’azione finale. In primo piano qualche cespuglio spelacchiato e rimasugli di neve. L’immagine, che ricorda l’assalto a un fortino in un dipinto della guerra di secessione americana, è stata diffusa l’11 dicembre dal Rodong Sinmun, il principale quotidiano di stato nordcoreano, e mostra un’esercitazione militare contro una replica della sede, oggi vacante, della leadership suprema della Corea del Sud.

Una minaccia (debole), una provocazione (certamente, soprattutto considerando in che situazione si trova adesso la Casa Blu, con il primo ministro a fare le veci della presidente Park Geun-hye messa in stato d’accusa dal parlamento il 9 dicembre) e un po’ di propaganda interna. Pyongyang non si lascia scappare l’occasione e sfrutta la crisi di governo in corso a Seoul per lanciare messaggi bellicosi e far sapere che potrebbe approfittare della vulnerabilità del Sud.

Ora che il parlamento ha approvato la mozione di impeachment, tocca alla corte costituzionale decidere se procedere o assolvere Park, coinvolta in uno scandalo di corruzione che ha come protagonista Choi Soon-sil, un’amica di vecchia data che avrebbe esercitato un’influenza spropositata negli affari di governo e grazie alla quale avrebbe ottenuto decine di milioni di dollari da alcune tra le più importanti aziende del paese (gli inquirenti hanno fatto perquisire gli uffici della Samsung alla fine di novembre). La corte potrebbe impiegare fino a sei mesi per emettere la sentenza e, se Park sarà incriminata, i sudcoreani andranno alle urne entro 60 giorni. Prima della scadenza del mandato alla fine del 2017, dunque. Fino ad allora, l’incarico della presidente è sospeso.

Il ruolo russo
A questa situazione d’incertezza si aggiunge l’incognita della transizione in corso alla Casa Bianca. Donald Trump alla guida di Washington rappresenta un grande punto interrogativo per gli osservatori della penisola coreana, impegnati da un mese in congetture basate più o meno sul nulla. O meglio, basate esclusivamente sulle dichiarazioni di Trump in merito alla Corea del Nord, prima che ci fosse almeno la nomina del segretario di stato a dare uno straccio d’indizio sulla direzione che la politica statunitense nei confronti di Pyongyang potrà prendere dal 20 gennaio. La conferma, arrivata oggi, che il prescelto è l’amministratore delegato di ExxonMobile Rex Tillerson, amico di Vladimir Putin, potrebbe fornire un’indicazione. E se l‘“avvicinamento” di Trump alla Russia implicasse un nuovo ruolo di Mosca al posto di Pechino nella mediazione con i nordcoreani?

Trump ha detto che sarebbe pronto a invitare Kim negli Stati Uniti e sedersi con lui a mangiare hamburger

Nei mesi di campagna elettorale Trump ha detto tutto e il suo contrario, non solo in riferimento alla Corea del Nord, ed è fuor di dubbio che sulle sue dichiarazioni precedenti all’8 novembre non si può fare affidamento. A proposito di Kim Jong-un, il nuovo presidente-imprenditore americano ha detto che sarebbe pronto a invitarlo negli Stati Uniti e sedersi con lui a mangiare hamburger (non sarebbe certo una cena di stato, questo l’ha specificato), convinto forse di poter trovare un deal, un accordo, anche con il giovane dittatore.

In un’altra occasione Trump ha dichiarato che bisogna riconoscere a Kim il merito di aver saputo assicurarsi il potere dopo la morte del padre. In un’altra ancora ha liquidato la questione nordcoreana come “un problema di Pechino”, di cui solo la Cina dovrebbe prendersi la responsabilità.

Per quanto confuse possano essere le dichiarazioni del prossimo inquilino della Casa Bianca, è indubbio che la sconfitta di Hillary Clinton ha scombinato gli scenari più o meno prevedibili nella penisola coreana, accendendo qualche speranza in un possibile cambio di rotta di Washington. Con l’ex segretaria di stato, infatti, probabilmente sarebbe continuata la “pazienza strategica”, la linea inaugurata dall’amministrazione Obama che consisteva sostanzialmente nel non fare nulla, se non approvare sanzioni che si confermano inutili, ponendo come condizione per l’avvio di qualsiasi forma di dialogo la rinuncia di Kim al suo programma nucleare.

Una posizione che ha portato a uno stallo sempre più pericoloso dato che nel frattempo, nel giro di nove mesi, i nordcoreani hanno condotto due test atomici e testato vari missili balistici in grado di portare un ordigno nucleare. Poco prima del voto americano, il capo dell’intelligence nazionale James Clapper (si è dimesso a metà novembre) aveva ammesso ciò su cui ormai tutti concordano da tempo: pensare di convincere la Corea del Nord a rinunciare al nucleare è una causa persa. Ormai era chiaro, Kim Jong-un ha fatto del nucleare la ragion d’essere sua e del suo regime e mai ci rinuncerà; ma che a dirlo fosse un alto funzionario di Washington ha fatto sperare in un nuovo corso.

Forse, pensava qualcuno quando ancora la vittoria di Trump sembrava implausibile, la presenza di Bill Clinton (promotore della fase più felice nella storia delle relazioni tra Stati Uniti e Corea del Nord) accanto alla nuova presidente avrebbe favorito un’apertura della Casa Bianca. Del resto tutti concordavano sul fatto che quella nordcoreana sarebbe stata una delle questioni più importanti che la nuova amministrazione avrebbe dovuto affrontare. E invece è accaduto l’imprevisto, e ha travolto ogni pronostico e ogni barlume di certezza. E adesso? Cosa bisogna aspettarsi?

Non si può cercare di trattare con il nemico e allo stesso tempo liquidarlo come folle

Difficilmente sapremo di più prima dell’insediamento di Trump a fine gennaio. È presumibile che il nuovo presidente ammorbidirà le posizioni drastiche annunciate in campagna elettorale. Ha già fatto un passo indietro in merito alla dichiarazione che ha preoccupato Seoul e Tokyo: il Giappone e la Corea del Sud dovranno imparare a fare a meno della protezione militare statunitense, pagare di più per la presenza dei marines nei loro territori e dotarsi di armi nucleari. Era un’esagerazione, ha poi precisato, ribadendo che l’alleanza di Washington con i due paesi è fuori discussione.

Le singole responsabilità
Quale che sia la linea che Trump e i suoi consiglieri decideranno di adottare, un buon punto di partenza potrebbe essere non ripetere l’errore commesso dai suoi predecessori, ovvero giudicare folle il governo del regime nordcoreano. È l’assunto fondamentale da cui parte Antonio Fiori, uno dei massimi esperti della penisola coreana, analizzando la storia diplomatica della Corea del Nord. In Il nido del falco (Le Monnier 2016) Fiori, docente di storia delle relazioni internazionali dell’università di Bologna che insegna alcuni mesi all’anno anche alla Korea University di Seoul, ripercorre le tappe della storia dei rapporti di Pyongyang con la comunità internazionale, rappresentata in primis da Stati Uniti, Corea del Sud, Giappone e Cina, e inchioda alle sue responsabilità ogni attore di questa tragedia grottesca e molto pericolosa.

Sembra un dettaglio di poco conto, invece quello che mette in luce Fiori è un elemento fondamentale: cercare di trattare con il nemico relegandolo al contempo alla sfera dell’irrazionale, liquidandolo come folle, equivale a dichiarare il fallimento dell’azione diplomatica nel momento stesso in cui ha origine (chi tratterebbe con un pazzo? E perché?). Quando aveva definito Kim Jong-un “un adolescente ribelle”, la segretaria di stato Hillary Clinton aveva ribadito l’idea già diffusa, e alimentata dai mezzi d’informazione “acchiappa clic”, del ragazzino matto e imprevedibile pronto a usare l’atomica come fosse in un videogioco.

Ma se si osserva l’evoluzione delle dinamiche tra Pyongyang e i suoi vicini (inclusi gli Stati Uniti dato che due suoi grandi alleati, Corea del Sud e Giappone, sono i diretti interessati delle azioni militari di Pyongyang) negli ultimi trent’anni, senza tralasciare i fattori legati alla politica interna che hanno influenzato le scelte dei Kim, si nota che le mosse e le strategie, la Sunshine policy che nel 2000 è valsa il Nobel per la pace al presidente sudcoreano Kim Dae-jung, la visita di Madeleine Albright in Corea del Nord nello stesso anno, gli sviluppi dei colloqui a sei, sono tutte tappe di un percorso ondivago ma a tratti virtuoso che si è interrotto bruscamente con l’arrivo di George W. Bush ed è morto definitivamente l’11 settembre 2001. Da lì dovrebbe riprendere la diplomazia di Washington. Cercando di andare oltre il muro delle “provocazioni irrazionali” di Kim Jong-un.

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