25 novembre 2014 14:55

Questo è un brano tratto da Amore e violenza (Bollati Boringhieri 2011), di Lea Melandri, saggista, scrittrice e giornalista italiana, una delle protagoniste del movimento delle donne.

Il dominio dell’uomo sulla donna si distingue da tutti gli altri rapporti storici di potere per le sue implicazioni profonde e contraddittorie. Innanzi tutto, la confusione tra amore e violenza: siamo di fronte a un dominio che nasce e si impone all’interno di relazioni intime, come la sessualità e la maternità. Ci sono parentele insospettabili che molti non riconoscono o che preferiscono ignorare. La più antica e la più duratura è quella che lega l’amore all’odio, la tenerezza alla rabbia, la vita alla morte. Si distrugge per conservare, si uccide per troppo amore, si idealizza l’appartenenza a un gruppo, una nazione, una cultura, per differenziarsi da chi ne è fuori, visto come nemico.

In uno dei suoi saggi più famosi – Il disagio della civiltà (1929) – Freud, dopo aver descritto Eros e Tanatos, amore e morte, come due pulsioni originarie, è costretto a riconoscere che sono meno polarizzate di quanto sembri. E dove l’intreccio è più sorprendente è proprio nel rapporto con l’oggetto d’amore.

…l’uomo non è una creatura mansueta, bisognosa d’amore, capace, al massimo di difendersi se viene attaccata; ma occorre attribuire al suo corredo pulsionale anche una buona dose di aggressività. Ne segue che egli vede nel prossimo non soltanto un eventuale aiuto e oggetto sessuale, ma anche un invito a sfogare su di lui la propria aggressività, a sfruttarne la forza lavorativa senza ricompensarlo, ad abusarne sessualmente senza il suo consenso, a sostituirsi a lui nel possesso dei suoi beni, ad umiliarlo, a farlo soffrire, a torturalo e a ucciderlo.

Anziché limitarsi a deprecare la violenza, invocando pene più severe per gli aggressori, più tutela per le vittime, forse sarebbe più sensato gettare uno sguardo là dove non vorremmo vederla comparire, in quelle zone della vita personale che hanno a che fare con gli affetti più intimi, con tutto ciò che ci è più famigliare, ma non per questo più conosciuto. Gli omicidi, gli stupri, i maltrattamenti fisici e psicologici che hanno come oggetto le donne, sono oggi ampiamente documentati da allarmanti Rapporti internazionali, riferiti dalle cronache dei quotidiani, gridati in prima pagina quando sono particolarmente crudeli o spettacolari. A uccidere, violentare, sottomettere, sono prevalentemente mariti, figli, padri, amanti incapaci di tollerare pareti domestiche troppo o troppo poco protettive, abbracci assillanti o abbandoni che lasciano scoperte fragilità maschili insospettate.

Nessuno sembra trovare inquietante che il corpo su cui l’uomo si accanisce sia quello che gli ha dato la vita, le prime cure, le prime sollecitazioni sessuali, un corpo che l’uomo ritrova nella vita amorosa adulta e con cui sogna di rivivere l’originaria appartenenza intima a un altro essere.

Ma è anche il corpo che lo ha tenuto in sua balìa nel momento della maggiore dipendenza e inermità, che poteva dargli la vita o la morte, accudimento o abbandono. Confinando la donna nel ruolo di madre, facendola custode della casa, dell’infanzia, della sessualità, l’uomo ha costretto anche se stesso a restare eterno bambino, a portare una maschera di virilità sempre minacciata.

La fuga dal femminile, da cui si può pensare abbia tratto la sua spinta più profonda la comunità storica degli uomini, è anche fuga dai bisogni infantili, che restano così fermi in una immobilità senza tempo.

La famiglia prolunga l’infanzia ben oltre il bisogno del singolo individuo, costruisce legami di indispensabilità reciproca e arma silenziosamente la mano che tenterà di strapparli. Il luogo che tutti vorremmo al riparo di una società sempre più conflittuale conserva il più lungo e il più enigmatico dei domini che la storia ha conosciuto: la guerra mai dichiarata che porta l’uomo, mosso da desideri e paure antiche, a celebrare i suoi trionfi sul corpo femminile con cui è stato tutt’uno e con cui torna a confondersi nell’abbraccio amoroso. Se l’uomo fosse solo il dominatore, il vincitore sicuro di sé, non avrebbe bisogno di umiliare e uccidere. Confinando la donna nel ruolo di madre, è come se le avesse permesso di protrarre ben oltre l’infanzia quel potere materiale e psicologico che ha esercitato su di lui bambino. Il potere che viene dal rendersi indispensabile all’altro è tuttora, per la donna, il più forte contrappeso alla sua mancata realizzazione come individuo, cittadina a tutti gli effetti.

L’altra contraddizione, strettamente legata alla prima, è il fatto che a prendere il sopravvento, a porsi come padrone, è il sesso che si trova all’origine –e per certi aspetti essenziali alla sua sopravvivenza anche nella vita adulta- nella posizione di maggiore debolezza. Prima che marito, padre possessivo, autoritario e violento, l’uomo è nato di donna, tenero figlio. La tentazione di attribuire alla società il passaggio del maschio dall’amore alla violenza – e cioè l’addestramento all’esercizio del potere da parte di una comunità di simili – è sicuramente più rassicurante che pensare a una ambivalenza di sentimenti già presente nelle relazioni più intime.

(…)

Una prima grande rivoluzione nell’analisi del sessismo è stata quella del movimento delle donne degli anni settanta. L’attenzione si spostava dalla sfera pubblica alla vita personale, dalla “questione femminile” – svantaggio sociale, minorità giuridica e politica delle donne, trattate alla stregua di qualsiasi minoranza – al “rapporto tra i sessi”. La svolta, rispetto all’emancipazionismo della prima metà del novecento, è stata nel pensare che il problema non era dare alle donne una cittadinanza compiuta, in termini di parità, eguaglianza con l’uomo, o la valorizzazione delle loro “doti domestiche” ( le “virtù del cuore”, per usare un’espressione di Maria Montessori), ma mettere in discussione il dominio maschile, a partire dalla espropriazione di esistenza che le donne hanno subito: identificazione col corpo, riduzione a oggetto, merce di scambio, confusione tra sessualità e maternità, cancellazione della sessualità femminile trasformata in sessualità di servizio e obbligo riproduttivo.

Pur senza affrontare “l’enigma delle origini” – il processo di differenziazione che ha contrapposto, complementarizzato e disposto secondo un ordine di priorità maschile e femminile, pensiero e corpo, storia e biologia –, al centro delle teorie e pratiche femministe c’era il dualismo sessuale, la definizione storica della femminilità e della maschilità, quella divisione dei ruoli e del lavoro che ha visto l’uomo farsi protagonista della vita pubblica e la donna relegata nella casa, custode degli interessi della famiglia e della conservazione della vita. Nel momento in cui si prendeva coscienza di aver interiorizzato la visione maschile del mondo, era inevitabile che l’attenzione si concentrasse sulla ricerca di autonomia nel modo di pensarsi e di sentirsi: conoscenza del proprio corpo, scoperta e legittimazione di una sessualità propria, separata dalla procreazione, diritto a interrompere gravidanze non desiderate. Furono questi i temi centrali dei gruppi di autocoscienza e di pratica dell’inconscio, che vedevano nella psicanalisi un sapere essenziale per non cadere nell’ideologia.

Su un altro versante, più vicino alla cultura marxista e al movimento operaio, c’erano gruppi come Lotta femminista che analizzavano la maternità, la cura di figli e famigliari come produzione e riproduzione della forza lavoro necessaria al capitale, lavoro gratuito elargito in nome dell’amore e strettamente legato all’economia generale.

In entrambi i casi restava in ombra, non esplorato quanto meritava, l’aspetto più ambiguo, più contraddittorio, del rapporto di potere tra i sessi, e cioè l’amore: amore tra la madre e il figlio, tra la donna e l’uomo. È vero che si parlò molto della relazione della figlia con la madre, della donna con la propria simile, ma sempre sotto il profilo della sessualità, omosessualità, lesbismo.

Il libro di Pierre Bourdieu, Il dominio maschile, che ha il merito di aver riportato a distanza di vent’anni dal primo femminismo l’attenzione sulla “violenza simbolica” – l’interiorizzazione di modelli, habitus mentali che hanno portato la vittima a parlare la stessa lingua dell’aggressore –, si chiude con un “Postscritto sul dominio e l’amore” e con un dubbio inquietante: l’“universo incantato delle relazioni amorose” è “un’eccezione, la sola, anche se prima grandezza, alle leggi del dominio maschile”, la “tregua miracolosa” in cui sono possibili la reciprocità, il perdersi l’uno nell’altro senza perdersi, uno stato perfetto di fusione, al di là dell’egoismo e dell’altruismo, del soggetto e dell’oggetto, oppure è “la forma suprema, perché la più sottile, la più invisibile” della violenza simbolica?

L’amore è sicuramente l’esperienza dove è più difficile tracciare un confine netto tra il destino dell’uomo e della donna, dove il creatore, a “differenza di un Pigmalione egocentrico e dominatore”, si vive come “la creatura della sua creatura”. Nella diade amorosa passano momenti di fusione perfetta, ma anche capovolgimenti continui di posizioni e di ruoli: tra il possedere e l’essere posseduti, il conquistare e l’essere conquistati, il generare e il nascere. Forse non era possibile portare alla coscienza la sessualità cancellata della donna senza svincolarla dalla maternità e dall’amore, per i quali la donna ha rinunciato spesso a un piacere proprio. Occorreva uno strappo, il gesto provocatorio con cui Rivolta Femminile, all’inizio degli anni settanta, affermava perentoriamente:

Il sesso femminile è la clitoride, il sesso maschile il pene (…) nell’uomo il meccanismo del piacere è strettamente connesso alla riproduzione, mentre nella donna meccanismo del piacere e meccanismo della riproduzione sono comunicanti, ma non coincidono.

Quando Carla Lonzi definisce “colonizzata” la “donna vaginale”, colpisce nel segno di una secolare sottomissione femminile al piacere dell’uomo, ottenuta spesso con la violenza. Ma è costretta a mettere in ombra il fatto che accogliere dentro di sé il genitale maschile, anche senza piacere proprio, va incontro a fantasie , desideri legati alla forma primordiale dell’amore, la singolare, irripetibile unità a due che formano insieme la madre e il figlio, prima della nascita e nel periodo immediatamente successivo. Si può ipotizzare che sia la sovrapposizione immaginaria tra la nascita e il coito a prolungare nella vita adulta, nella relazione di coppia, l’Eros in quella che Freud definisce, nel Disagio della civiltà, la sua “essenza”: “fare di più d’uno uno”. Ma anche a far sì che l’uomo da figlio, creatura inerme, possa venire a occupare la posizione di dominio che ha visto nella madre, e nel medesimo tempo riattraversare da vincitore il trauma della nascita e della sua iniziale fragilità.

Nel coito si può pensare che si intreccino e si confondano il desiderio di perdersi nell’indistinzione col corpo da cui si è stati generati e la fuga dal pericolo di un nuovo assorbimento. Anche senza arrivare allo stupro, c’è un tratto violento della sessualità maschile genitale, penetrativa – limitante anche per l’uomo – che ha a che fare con paure profonde. Il corpo femminile che l’uomo incontra nella vita amorosa adulta non può non riattivare l’esperienza originaria del corpo materno, evocare la tenerezza della fusione e insieme la paura di perdere la propria autonomia: fragilità, impotenza, senso di inglobamento. A mantenere così viva la memoria del corpo ha evidentemente contribuito l’ideologia che ha identificato la donna con la madre e costretto di conseguenza l’uomo a convivere con la sua infanzia.

Il dominio dell’uomo, marito, padre, nasce dunque come costruzione storica volta a mettere riparo alla inermità dell’uomo-figlio, ma anche, come scrive Stefano Ciccone nel suo libro, Essere maschi, alla marginalità maschile rispetto al processo riproduttivo:

Mi riferisco innanzitutto a un’asimmetria tra i due sessi che è percepita come uno scacco del corpo maschile, una sua accessorietà nel processo riproduttivo a cui la storia degli uomini ha risposto con costruzioni simboliche e reti di poteri che ne hanno occultato il fondamento e, facendolo, lo hanno esasperato. Di fronte a due corpi dispari nel generare la risposta maschile non ha cercato nel proprio corpo le potenziali risorse per dare senso al proprio stare al mondo, ma ha costruito ruoli, poteri e narrazioni che quasi surrogassero questa disparità e affermassero una centralità maschile. Penso alla necessità di costruire un controllo sul corpo della donna (…) di svalutare la corporeità (percepita come terreno del primato femminile), riducendola a strumento di un soggetto disincarnato che si affranca dai suoi vincoli.

Che sia intorno alla nascita e al coito – al loro immaginario sovrapporsi e confondersi – che prende forma il dominio maschile, è chiaro sia nella lettura mitologica che ne fa Bachofen, sia in quella romantica di J.Michelet.

Scrive Bachofen:

La donna precede, l’uomo segue; la donna viene prima, l’uomo verso di lei è in rapporto filiale; la donna è, l’uomo nasce da lei come suo primo frutto (…) Nell’ambito dell’esistenza fisica, il principio maschile è al secondo posto, subordinato al principio femminile (…) così il figlio diviene lo sposo, il fecondatore della madre, il padre stesso (…) Da figlio, diviene fecondatore della madre; da generato, generatore, e dinanzi a lui sta sempre la medesima donna, di volta in volta madre e sposa. Il figlio diviene il padre di se stesso.

I protagonisti posti all’inizio, la madre e il figlio, ricompaiono nella fase finale del processo in posizione capovolta. La linea orizzontale del divenire storico si trasforma in un cerchio, una specie di cortocircuito istantaneo che salda insieme inizio e fine, origine e storia, madre e figlio, donna e uomo. In sequenza rapida passano e si sovrappongono la figura del figlio, dell’uomo fecondatore e del padre, che a questo punto ha preso su di sé tutto il potere creativo e l’onnipotenza che aveva creduto essere della madre. Il coito prende forma dalla nascita e a sua volta le da forma. E’solo l’anello di trasmissione da un dominio all’altro, la presa di possesso che segna il chiudersi del cerchio in posizione rovesciata. Nel capovolgimento che vede l’uomo prendere il posto che era della madre, l’esistenza femminile che si consegna a lui e che da lui attende la sua rigenerazione, è vista non a caso come un figlio maschio.

La Natura privilegia l’uomo. Essa la consegna a lui debole, amorosa e dipendente nel suo continuo bisogno di essere amata e protetta. La Natura, per la sua figlia innocente, si rimette alla magnanimità dell’uomo. L’uomo, per di più, facendo leggi si è a sua volta privilegiato, si è talmente armato contro una debole creatura che la sofferenza gli consegna.

Il compito della donna: rifare il cuore dell’uomo. Protetta, sostenuta da lui, lo sostenga d’amore. L’amore è il suo lavoro.

L’uomo, più anziano della donna, sovrasta la sua compagna per esperienza, e l’ama quasi come una figlia (…) quando però il mestiere e la fatica hanno curvato l’uomo, la donna, sobria e seria, vero genio della casa, è amata dal lui come una madre.

La donna entra intera nell’unione, per sempre. Vuol rinascere insieme con lui e per suo tramite. Bisogna prenderla in parola, rifarla, rinnovarla, crearla (…)Intuisce che l’amerai di più, sempre di più, se diventa tua e te stesso. Prendila dunque, in quel modo in cui si da, sopra il tuo cuore e nelle tue braccia, come un piccolo tenero bimbo.

In Michelet l’idealizzazione romantica dell’amore come sogno fusionale rende ancora più difficile sciogliere l’annodamento tra amore e dominio. Lo scambio delle parti tra il debole e il forte, il dominato e il dominatore, produce un effetto di reciprocità ingannevole, dietro cui traspare evidente l’ordine patriarcale che subordina la donna agli interessi e al bene dell’uomo. Se agli occhi dell’uomo-figlio la madre è il corpo potente che lo ha generato, accudito, e che ancora lo accoglie tra le sue braccia, per l’uomo marito, padre che la storia ha visto trionfare e prendere distanza dalle sue radici biologiche, è colei che è chiamata, restando sempre madre, anche quando è diventata moglie, compagna dell’uomo, a “rigenerarlo” fisicamente, moralmente, dalle fatiche del lavoro, sostenerlo e confortarlo nel suo impegno sociale. Anzi di più: a trasferire su di lui tutte le sue energie, la sua vita stessa, fino a “diventare lui”.

Sia in Michelet che in Bachofen la donna è vista unicamente come madre e figlia/figlio, non è previsto il suo sviluppo come individualità femminile. Anche quando le si riconosce un’anima, è un’anima che deve nutrirsi dei pensieri degli uomini, assecondare e prevenire i loro bisogni, compenetrarsi dell’amato fino a essere tutt’uno con lui.

Nella figura duplice della donna che la natura consegnerebbe all’uomo “debole, amorosa, dipendente”, bisognosa di essere amata e protetta, ma anche maternamente incline a prendersi cura di lui, si fondono contraddittoriamente la servitù, l’insignificanza storica delle donne e la loro esaltazione immaginativa. Ma, soprattutto, ciò che è importante rilevare è che, dietro un dominio reso impercettibile dalla favola amorosa, si eclissano la debolezza e la fragilità del maschio.

Il legame tra inermità, dipendenza e dominio nell’esperienza maschile appare invece in modo esplicito nel saggio di Sàndor Ferenczi, Thalassa (1924):

…l’uomo è dominato da una tendenza regressiva che mira a ristabilire la situazione intrauterina (…) Verso la fine dello sviluppo libidico, il bambino ritorna al proprio oggetto primitivo, la madre, questa volta però munito di un’arma offensiva più adeguata. La verga erettile sarebbe perfettamente in grado di trovare la strada della vagina materna e in tutto idonea a raggiungere la propria meta.

La guerra tra i sessi, che vede l’uomo vincitore, si gioca dunque anche per Ferenczi intorno alla nascita e all’accoppiamento, in conformità con la tendenza biologica, “molto più generale, che spinge gli esseri viventi a ritornare nello stato di quiete di cui godevano prima della nascita”.

Non potendo negare che il desiderio di tornare nel ventre materno sia in entrambi i sessi, Ferenczi è costretto ad attribuire alla donna il “piacere passivo” nel subire l’atto sessuale, l’identificazione immaginaria durante il coito con l’uomo vittorioso, detentore del pene, ma soprattutto l’identificazione col bambino.

(…)

Del resto questa è anche la lettura che Freud fa dello scacco che subisce la donna nella sessualità: se l’uomo assume come oggetto sessuale le persone che hanno a che fare con la nutrizione, la cura, la protezione del bambino, “cioè in primo luogo la madre o chi ne fa le veci”, per la donna è bambino stesso che diventa un “oggetto sessuale in piena regola”. E così forte è questo spostamento che anche nella vita adulta, conclude Freud, un matrimonio si può considerare riuscito quando la moglie ha fatto del marito il proprio figlio.

Pur partendo da presupposti diversi – l’idealismo romantico per Michelet, la bioanalisi per Ferenczi – il dominio maschile percorre traiettorie simili: per garantirsi la possibilità del ritorno, sia pure immaginario, alla originaria beatitudine dell’unità a due, la continuità delle cure materne, era necessario che la donna restasse madre, depotenziata di una sessualità e di una esistenza propria, a tal punto da doversi immedesimare totalmente con l’uomo o prendere su di sé la fragilità, l’inermità, che era stata del figlio.

In una delle ultime lettere alla madre, prima del suicidio avvenuto quando aveva solo 23 anni, Carlo Michelstaedter scrive:

Mi pare che tu non debba mai essere fuori di me, ma che noi siamo ancora sempre una sola persona…come 21 anno e 5 mesi fa. E questa è in fondo la relazione tra madre e figlio, come è definita dalla natura;la mamma è l’unica persona che può volere bene così, senza mai aver bisogno di affermare la sua individualità e senza che questo le sia una sacrificio.

Importante è assicurarsi che la donna sia disposta al sacrificio di sé per far crescere l’individualità del figlio – come dice Rousseau nell’Emilio: “allevarli da piccoli, averne cura da grandi, consigliarli, consolarli, rendere loro la vita piacevole e dolce”. E la certezza di questa dedizione è tanto più solida quanto essa riuscirà a “diventare lui”, vivere solo attraverso di lui, le sue opere, la sua riuscita nel mondo.

Per celebrare la sua autonomia, la sua libertà nella sfera pubblica l’uomo ha avuto bisogno di cancellare i suoi vincoli biologici, la nascita dal corpo femminile e tutto ciò che quel corpo continua a rappresentare per lui: la fragilità, la mortalità, la dipendenza dei primi anni di vita. Pur continuando ad esaltarla immaginativamente, sulla donna l’uomo ha proiettato la sua debolezza, la sua caduta, la sua colpa, o semplicemente il retaggio della sua radice animale, e quindi dei suoi limiti di vivente. Per svilirne la potenza – materna ed erotica – l’ha costretta a vivere di vita riflessa, a incarnare le sue paure e i suoi desideri, la sua salvezza o la sua dannazione.

Ma insieme a lei ha dovuto in qualche modo svilire il suo corpo e tutte le passioni che lo attraversano. Ciò significa che attraverso l’immagine che l’uomo si è fatto dell’altro sesso passa un conflitto tutto interno al maschile, tra inermità e potere, dipendenza e cancellazione di ogni legame, corporeità e pensiero, sentimenti e ragione.

(…)

Gli uomini hanno armato la loro debolezza per non vederla, hanno fatto del silenzio del loro corpo la condizione per costruire una soggettività libera da vincoli, l’esercizio del governo e del potere.

Più che la distanza dalla madre emerge – si legge nel libro di Stefano Ciccone, Essere maschi – “la distanza da noi stessi (…) una rottura con la corporeità che ci lascia come amputati, estranei ai nostri stessi corpi”.

La crescita della libertà e dell’autonomia femminile, se per un verso ha messo allo scoperto l’inadeguatezza maschile a rapportarsi alla donna come soggetto, individuo, persona, dall’altro può diventare – dice Ciccone – “una risorsa per permettere agli uomini una diversa esperienza di sé e del proprio corpo e dunque per aprire una strada di uscita dalla violenza”.

Lea Melandri è una delle figure più note del femminismo italiano. Tiene corsi presso la Libera università delle donne di Milano. Ha appena pubblicato L’attualità inattuale di Elvio Fachinelli (Ipoc 2014).

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it