21 giugno 2016 15:16

Il risultato dell’ultima tornata elettorale dice di un bisogno di rinnovamento –abbandono della forma partito, ricambio generazionale, successo delle candidature femminili – ma non dice con chiarezza quale altra prospettiva si stia aprendo alla rappresentanza, o, più in generale, alla partecipazione intesa come impegno civile o agire politico. L’astensionismo crescente, letto come estraneazione, esclusione volontaria dallo spettacolo poco edificante che sta dando di sé la politica istituzionale, se lo si guarda nei suoi risvolti meno evidenti, potrebbe, al contrario, apparire come il desiderio inappagato – e perciò vendicativo, protestatario – di potersi riconoscere nei modelli oggi dominanti di aggregazione.

Non è un caso se gli accostamenti tra “individuo e collettivo”, tra “personale e politico”, “modificazione di sé e del mondo”, che sono stati al centro delle esigenze radicali poste dai movimenti antiautoritari degli anni settanta, sono diventati incomprensibili, o sono scomparsi del tutto. Da un passato rivoluzionario e particolarmente creativo tornano solo alcune parole, riesumate un po’ per inerzia, un po’ per scarsa comprensione dei cambiamenti in atto, un po’ per la difficoltà perfino a prospettarsi un futuro.

Se i cinquestelle si sono assestati con successo su un nome evocativo di ricorrenti ondate contestatarie – “movimento” – altri rincorrono espressioni più immediate di riunificazioni ideali: Insieme si può, Milano in comune, lista civica eccetera.

Perfino i due tratti apparentemente più innovativi – i giovani e le donne – sembrano avere poche somiglianze con analoghe apparizioni di “soggetti imprevisti” negli anni settanta. Anche allora, nella consapevolezza di confini che si eclissavano tra privato e pubblico, tra biologia e storia, corpo e politica, si parlava di “donne, omosessuali, famiglie, comuni, nuove intimità eccetera”, di esercizio del potere “tra individui uguali e sempre autonomi”, di una politica che restituisce la parola a tutti, che non ignora l’invecchiare e il morire, la violenza scambiata per amore nel rapporto tra uomini e donne, il pericolo di veder avanzare una tecnologia finalizzata alla produzione, al consumo, alle logiche di mercato, più che al benessere e al bisogno di autorealizzazione di ogni individuo.

La libertà che lentamente si fa strada dentro gerarchie, si accompagna a forme selvagge di violenza sessista, razzista, omofobica

Il “possibile”, allora “impossibile”, oggi sembra praticabile. È balenata perfino l’idea di una utopica sostituzione della democrazia diretta alla rappresentanza tradizionale. Eppure si ha l’impressione che i bisogni e i desideri non siano mai stati così distanti e divaricati. Più la crisi economica si manifesta tutta interna a un modello di civiltà e di produzione insostenibile e destinato a creare disastri globali irreparabili – le migrazioni, l’esaurimento delle risorse naturali, le variazioni climatiche, la disoccupazione – più nascono movimenti di contestazione radicali, come Occupy wall street, Indignados, Nuit debout, ma, contemporaneamente, anche spinte conservatrici, chiusure, derive autoritarie e aggressive.

La libertà che lentamente si fa strada dentro gerarchie, rapporti tradizionali di potere – come quello tra i sessi, tra eterosessuali e gay, lesbiche – considerati “naturali” e immodificabili, si accompagna a forme selvagge di violenza sessista, razzista, omofobica. Confusioni, contraddizioni, ambiguità analoghe sono rintracciabili anche nella volontà di scalzare politici consumati dalla lunga permanenza nelle istituzioni, per dare corso a processi ancora più nocivi di personalizzazione e accentramento del potere.

Che le preferenze nel voto di rappresentanza, in Italia come in altri paesi, vadano al sesso che nella secolare assenza dalla scena pubblica sembra aver conservato doti di “naturale” innocenza e generosa disponibilità a risollevare le sorti del mondo, non stupisce. Allo stesso modo si può dare per scontato che l’emancipazione femminile avvenga, come già scriveva Sibilla Aleramo all’inizio del secolo scorso, “per forza di cose”, come effetto di una modernizzazione dei costumi e di un declino di credibilità del patriarcato. Chi si ricorda più di quella rivoluzione delle coscienze che qualche decennio fa ha costretto la politica a spingere le sue pratiche fin dentro le zone più remote della vita psichica, per sottrarre alla “naturalizzazione” tesori di cultura, aggredire nei loro risvolti inconsci differenziazioni astratte e violente, come la femminilità e la virilità, così come le abbiamo ereditate?

Era prevedibile che nel declino di istituzioni nate dalla separazione tra pubblico e privato, tra il cittadino e la persona nella sua interezza, sostenute così a lungo dalla divisione sessuale del lavoro, la storia ritrovasse le sue “viscere” e che purtroppo, in assenza di una nuova configurazione di legami tra corpo, individuo e legame sociale, ne fosse invasa, contagiata nelle forme che conosciamo: fondamentalismo, sessismo, nazionalismo, demagogia, eccetera. Non lasciarsi travolgere dalla fiumana che ha cancellato argini senza aprire nuovi varchi, è lo sforzo che aspetta chi ancora pensa che un altro mondo è possibile.

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